Era forte, Billy, era forte davvero.
Settembre 1986: insieme ad un collega astigiano, abbiamo appuntamento, per le ore 16,30 di una giornata piuttosto soleggiata, a casa di un suo cliente, Sandro "Billy" Salvadore, uno dei miti bianconeri della mia infanzia.
Ricordo l’emozione di quell’autografo, strappatogli una quindicina d’anni prima.
Era giovedì mattina in via Filadelfia, quando, alla fine dell’allenamento, i nostri campioni dell’epoca (la Juve di Vycpalek, il “buon papà”) lasciavano sudati il Combi e attraversavano la strada, per entrare negli spogliatoi del glorioso Comunale. Le auto ferme davanti alle strisce, il rumore dei tacchetti sull’asfalto, l’emozione di averli lì davanti, e poi, Marchetti, Morini, Causio, Spinosi, Capello, Furino, capitan Salvadore … ecco, lui fu l’unico a fermarsi un attimo: una firma sulla retrocopertina del quaderno di matematica, e marinare la scuola aveva avuto un senso!
Sono passati 15 anni da quell’autografo, Billy ha smesso già da oltre un decennio … e noi siamo in vergognoso ritardo rispetto all’appuntamento preso. E non ci sono ancora i cellulari, a permetterti di avvisare del ritardo.
Guido in maniera piuttosto “disinvolta” per quelle stradine in mezzo alle colline, in mezzo a vigneti pieni di grappoli, ormai pronti ad essere trasformati negli splendidi vini della zona, passando per paesini che sembrano disabitati: già … a quell’ora, in campagna si lavora.
Arrivati in cima ad una collinetta, la strada finisce nell’aia di una cascina, enorme ma bella, forse non curatissima, almeno all’esterno, deserta anche quella. “Abbiamo mezz’ora di ritardo: si sarà stufato e se ne sarà andato!” impreco. Il collega mi rassicura, dicendo di aspettare.
Dopo alcuni minuti, il rumore di un trattore in lontananza, contro sole per noi e quindi non identificabile, guidato da quello che sembra essere un pazzo urlante … Pian piano si avvicina, e le parole che grida diventano più distinguibili: “Ciao ragazzi, sono arrivato, scusatemi”.
Il trattore si ferma davanti a noi e ne discende un ragazzone di quasi cinquant’anni in tuta ginnica blu (riutilizzata come divisa da lavoro nei campi), con le manone che portano chiari i segni dell’attività agricola. Saluta, dà una robusta pacca sulla spalla al mio collega e mi stringe la mano con decisione, senza preoccuparsi del fatto che non sia proprio pulitissima, dicendomi: “Io sono Sandro, dammi del tu, se vuoi: io comunque ti do del tu, noi siamo abituati così”, e mi prendo anch’io la mia brava pacca sulla spalla.
Ci accomodiamo in casa, ben arredata, spaziosa, elegante e curata: compiaciuto, ci dice che il merito è della moglie, la signora Anna, e delle figliole. Prende una bottiglia di rosso e ci offre da bere.
Noi siamo lì per due firme su un documento, una semplice formalità da cinque minuti, troppo poco … quindi, meglio prenderla larga: comincio a chiedergli qualcosa dei suoi dodici anni alla Juve.
E lui comincia volentieri a raccontare, e gli brillano gli occhi: si vede che per lui il bianco e il nero non sono due semplici colori, che la loro unione è qualcosa che ti porti dentro per tutta la vita.
Ci parla del suo arrivo alla Juve, dopo 4 anni di Milan, con due scudetti vinti e un mondiale fallimentare (Cile) alle spalle. In tournée coi rossoneri a Buenos Aires, l’allenatore gli comunicò che non avrebbe potuto giocare: era appena diventato bianconero.
Il suo primo allenatore Juventino, Amaral, ex Brasile, che schierava la difesa a zona, in un 4-3-3 perlomeno inconsueto per il calcio italico, i cui punti di riferimento erano Del Sol in mezzo e Omar Sivori davanti: i due centrali difensivi erano Tino Castano e Salvadore stesso. Almeno non doveva giocare in marcatura fissa, come invece gli era capitato spesso di dover fare al Milan, dove gli veniva preferito Maldini. Billy (soprannome derivato dalla sua ammirazione per Billy Wright, difensore centrale dell’Inghilterra del 4-0 all’Italia del Grande Torino) non ha mai amato fare il marcatore o il terzino, e sicuro non lo mandava a dire all’allenatore milanista Viani, col quale il rapporto non era stato certo idilliaco
“Alla Juve è tutta un’altra cosa: c’è la presenza della famiglia Agnelli, l’attenzione all’uomo oltre che al calciatore: tu devi solo giocare! E poi, la classe della società, lo stile Juventus”: sembra di sentire un liceale maturo, che sta parlando della donna di cui è innamorato.
Poi, lo scudetto inaspettato, quello del ’67, quello della Juve operaia di Heriberto, allenatore col quale, ci dice, non fu facile trovare un rapporto soddisfacente: due duri che spesso si confrontavano a viso aperto … molte volte, con conseguente panchina per Billy.
Non era tipo da abbassare la testa: era una questione caratteriale. Nato nella periferia milanese, da famiglia operaia, era un po’ brusco, e anche abbastanza orso: una bella faccia, spesso un po' imbronciata, fino al punto da poter apparire spocchioso.
Ci racconta che era consapevole di avere qualità fisiche e tecniche di prim’ordine, un difensore che giocava come un centrocampista, anche se i fondamentali li aveva imparati, (come molti, all’epoca) all’oratorio, giocando con quelli più grandi, quelli che ti prendono in squadra solo se dimostri di essere tosto davvero.
Essenziale, senza fronzoli e senza concessioni alla vanità, forse anche per questo era diventato il punto di riferimento per i compagni più giovani. Da vero e proprio maestro, consapevole di rappresentare la vecchia guardia della Vecchia Signora, dispensava consigli utili, aiutandoli ad inserirsi nel gruppo. A cominciare da Causio, che aveva accolto come compagno di stanza, per proseguire con Bettega, Furino, Morini, col quale aveva in comune la passione per la caccia.
Ora, a caccia va spesso col granata Cereser, vicino di collina, insieme ad altri amici extracalcistici, anche se, ci confessa, nei silenzi delle mattine venatorie, a volte ha la sensazione di risentire le urla di Dino Zoff (con cui ha condiviso un paio di stagioni), insuperabile vero regista della difesa.
Tra l’altro, la passione della caccia è condivisa anche con Boniperti, per il quale nutre grande rispetto, che giocò l’ultima volta in Nazionale proprio il giorno del suo esordio, contro l’Austria. Già, la Nazionale … non posso non chiedergli della fine della sua avventura azzurra (avventura che comunque gli era valsa il titolo europeo del ’68), di quella maledetta amichevole con la Spagna, terminata 2-2, con due sue autoreti.
“La prima l’ho deviata, certo, ma nel secondo gol la palla mi ha sfiorato, ma non l’ho nemmeno toccata.”. Ma allora, perché non dirlo, perché non difendersi? In fin dei conti, venne escluso dal mondiale ’70 per quelle autoreti! “Non sarebbe servito! E poi, se giochi alla Juve, sai già di avere tutti contro, ci sei abituato … e in fondo, non te ne frega nulla, sai di essere superiore.” E ride.
Capace di scherzare su tutto, ma anche di prendere sul serio le cose importanti: “Non mi sono mai tirato indietro, quando c’è da farsi valere, o da dire le cose in faccia.”
Soprattutto, non gli è mai piaciuto perdere: come quella volta che andò a segnare il gol del pareggio, al ritorno di Juve-Milan, decisiva per la testa del campionato (poi vinto). “Aveva segnato Bigon per loro, ma noi non potevamo perdere … continuavo ad andare in attacco, anche per far capire agli altri che non bisognava mollare la presa, finché non è arrivata la palla giusta … no, non si poteva perdere, e non abbiamo perso.”
Ancora un paio di campionati, il tempo di vincere il suo quinto scudetto (3° con la Juve), e di perdere la finale di Belgrado contro gli extraterrestri dell’Ajax … poi, l’arrivo di Scirea, la concessione della lista gratuita, infine, la decisione di smettere.
Ci conferma di aver provato per un po’ ad allenare nelle giovanili della Juve, poi in squadre minori, poi la scelta di ritirarsi qui, in mezzo al verde delle colline, nella sua cascina. E l’entusiasmo con cui ce ne parla è lo stesso di prima, di quando ci raccontava del calcio: la voglia di stare all’aria aperta, di guidare il trattore, di imparare a fare tutti i lavori della vita di campagna. Ma anche di costruirsi da sé le cose che gli servono, senza dover dipendere da nessuno. E continua a ridere, fino al momento in cui, di colpo, si alza e ci dice che si è fatto tardi, che ha ancora da fare dei lavori importanti per il bestiame.
Vero, è tardi, e soprattutto ci siamo dimenticati di quelle due firme, per le quali eravamo venuti fin qui: meno male che, mentre stiamo per congedarci e andarcene, è lui a ricordarsene e a fermarci.
Mette tanta malinconia, ripensarci oggi, a ventidue anni di distanza, quando Salvadore se n’è già andato da un anno e mezzo, in un freddo gennaio, mentre la sua amata Juve giocava un insensato, immeritato e immotivato campionato di serie B. No, meglio ricordarlo quando, fiero e senza timore, senza parastinchi e con i calzettoni giù fino alle caviglie, usciva dall’area palla al piede e scendeva nella metà campo avversaria per cercare l’assalto decisivo.
Ciao Billy, grazie di tutto!
Ricordo l’emozione di quell’autografo, strappatogli una quindicina d’anni prima.
Era giovedì mattina in via Filadelfia, quando, alla fine dell’allenamento, i nostri campioni dell’epoca (la Juve di Vycpalek, il “buon papà”) lasciavano sudati il Combi e attraversavano la strada, per entrare negli spogliatoi del glorioso Comunale. Le auto ferme davanti alle strisce, il rumore dei tacchetti sull’asfalto, l’emozione di averli lì davanti, e poi, Marchetti, Morini, Causio, Spinosi, Capello, Furino, capitan Salvadore … ecco, lui fu l’unico a fermarsi un attimo: una firma sulla retrocopertina del quaderno di matematica, e marinare la scuola aveva avuto un senso!
Sono passati 15 anni da quell’autografo, Billy ha smesso già da oltre un decennio … e noi siamo in vergognoso ritardo rispetto all’appuntamento preso. E non ci sono ancora i cellulari, a permetterti di avvisare del ritardo.
Guido in maniera piuttosto “disinvolta” per quelle stradine in mezzo alle colline, in mezzo a vigneti pieni di grappoli, ormai pronti ad essere trasformati negli splendidi vini della zona, passando per paesini che sembrano disabitati: già … a quell’ora, in campagna si lavora.
Arrivati in cima ad una collinetta, la strada finisce nell’aia di una cascina, enorme ma bella, forse non curatissima, almeno all’esterno, deserta anche quella. “Abbiamo mezz’ora di ritardo: si sarà stufato e se ne sarà andato!” impreco. Il collega mi rassicura, dicendo di aspettare.
Dopo alcuni minuti, il rumore di un trattore in lontananza, contro sole per noi e quindi non identificabile, guidato da quello che sembra essere un pazzo urlante … Pian piano si avvicina, e le parole che grida diventano più distinguibili: “Ciao ragazzi, sono arrivato, scusatemi”.
Il trattore si ferma davanti a noi e ne discende un ragazzone di quasi cinquant’anni in tuta ginnica blu (riutilizzata come divisa da lavoro nei campi), con le manone che portano chiari i segni dell’attività agricola. Saluta, dà una robusta pacca sulla spalla al mio collega e mi stringe la mano con decisione, senza preoccuparsi del fatto che non sia proprio pulitissima, dicendomi: “Io sono Sandro, dammi del tu, se vuoi: io comunque ti do del tu, noi siamo abituati così”, e mi prendo anch’io la mia brava pacca sulla spalla.
Ci accomodiamo in casa, ben arredata, spaziosa, elegante e curata: compiaciuto, ci dice che il merito è della moglie, la signora Anna, e delle figliole. Prende una bottiglia di rosso e ci offre da bere.
Noi siamo lì per due firme su un documento, una semplice formalità da cinque minuti, troppo poco … quindi, meglio prenderla larga: comincio a chiedergli qualcosa dei suoi dodici anni alla Juve.
E lui comincia volentieri a raccontare, e gli brillano gli occhi: si vede che per lui il bianco e il nero non sono due semplici colori, che la loro unione è qualcosa che ti porti dentro per tutta la vita.
Ci parla del suo arrivo alla Juve, dopo 4 anni di Milan, con due scudetti vinti e un mondiale fallimentare (Cile) alle spalle. In tournée coi rossoneri a Buenos Aires, l’allenatore gli comunicò che non avrebbe potuto giocare: era appena diventato bianconero.
Il suo primo allenatore Juventino, Amaral, ex Brasile, che schierava la difesa a zona, in un 4-3-3 perlomeno inconsueto per il calcio italico, i cui punti di riferimento erano Del Sol in mezzo e Omar Sivori davanti: i due centrali difensivi erano Tino Castano e Salvadore stesso. Almeno non doveva giocare in marcatura fissa, come invece gli era capitato spesso di dover fare al Milan, dove gli veniva preferito Maldini. Billy (soprannome derivato dalla sua ammirazione per Billy Wright, difensore centrale dell’Inghilterra del 4-0 all’Italia del Grande Torino) non ha mai amato fare il marcatore o il terzino, e sicuro non lo mandava a dire all’allenatore milanista Viani, col quale il rapporto non era stato certo idilliaco
“Alla Juve è tutta un’altra cosa: c’è la presenza della famiglia Agnelli, l’attenzione all’uomo oltre che al calciatore: tu devi solo giocare! E poi, la classe della società, lo stile Juventus”: sembra di sentire un liceale maturo, che sta parlando della donna di cui è innamorato.
Poi, lo scudetto inaspettato, quello del ’67, quello della Juve operaia di Heriberto, allenatore col quale, ci dice, non fu facile trovare un rapporto soddisfacente: due duri che spesso si confrontavano a viso aperto … molte volte, con conseguente panchina per Billy.
Non era tipo da abbassare la testa: era una questione caratteriale. Nato nella periferia milanese, da famiglia operaia, era un po’ brusco, e anche abbastanza orso: una bella faccia, spesso un po' imbronciata, fino al punto da poter apparire spocchioso.
Ci racconta che era consapevole di avere qualità fisiche e tecniche di prim’ordine, un difensore che giocava come un centrocampista, anche se i fondamentali li aveva imparati, (come molti, all’epoca) all’oratorio, giocando con quelli più grandi, quelli che ti prendono in squadra solo se dimostri di essere tosto davvero.
Essenziale, senza fronzoli e senza concessioni alla vanità, forse anche per questo era diventato il punto di riferimento per i compagni più giovani. Da vero e proprio maestro, consapevole di rappresentare la vecchia guardia della Vecchia Signora, dispensava consigli utili, aiutandoli ad inserirsi nel gruppo. A cominciare da Causio, che aveva accolto come compagno di stanza, per proseguire con Bettega, Furino, Morini, col quale aveva in comune la passione per la caccia.
Ora, a caccia va spesso col granata Cereser, vicino di collina, insieme ad altri amici extracalcistici, anche se, ci confessa, nei silenzi delle mattine venatorie, a volte ha la sensazione di risentire le urla di Dino Zoff (con cui ha condiviso un paio di stagioni), insuperabile vero regista della difesa.
Tra l’altro, la passione della caccia è condivisa anche con Boniperti, per il quale nutre grande rispetto, che giocò l’ultima volta in Nazionale proprio il giorno del suo esordio, contro l’Austria. Già, la Nazionale … non posso non chiedergli della fine della sua avventura azzurra (avventura che comunque gli era valsa il titolo europeo del ’68), di quella maledetta amichevole con la Spagna, terminata 2-2, con due sue autoreti.
“La prima l’ho deviata, certo, ma nel secondo gol la palla mi ha sfiorato, ma non l’ho nemmeno toccata.”. Ma allora, perché non dirlo, perché non difendersi? In fin dei conti, venne escluso dal mondiale ’70 per quelle autoreti! “Non sarebbe servito! E poi, se giochi alla Juve, sai già di avere tutti contro, ci sei abituato … e in fondo, non te ne frega nulla, sai di essere superiore.” E ride.
Capace di scherzare su tutto, ma anche di prendere sul serio le cose importanti: “Non mi sono mai tirato indietro, quando c’è da farsi valere, o da dire le cose in faccia.”
Soprattutto, non gli è mai piaciuto perdere: come quella volta che andò a segnare il gol del pareggio, al ritorno di Juve-Milan, decisiva per la testa del campionato (poi vinto). “Aveva segnato Bigon per loro, ma noi non potevamo perdere … continuavo ad andare in attacco, anche per far capire agli altri che non bisognava mollare la presa, finché non è arrivata la palla giusta … no, non si poteva perdere, e non abbiamo perso.”
Ancora un paio di campionati, il tempo di vincere il suo quinto scudetto (3° con la Juve), e di perdere la finale di Belgrado contro gli extraterrestri dell’Ajax … poi, l’arrivo di Scirea, la concessione della lista gratuita, infine, la decisione di smettere.
Ci conferma di aver provato per un po’ ad allenare nelle giovanili della Juve, poi in squadre minori, poi la scelta di ritirarsi qui, in mezzo al verde delle colline, nella sua cascina. E l’entusiasmo con cui ce ne parla è lo stesso di prima, di quando ci raccontava del calcio: la voglia di stare all’aria aperta, di guidare il trattore, di imparare a fare tutti i lavori della vita di campagna. Ma anche di costruirsi da sé le cose che gli servono, senza dover dipendere da nessuno. E continua a ridere, fino al momento in cui, di colpo, si alza e ci dice che si è fatto tardi, che ha ancora da fare dei lavori importanti per il bestiame.
Vero, è tardi, e soprattutto ci siamo dimenticati di quelle due firme, per le quali eravamo venuti fin qui: meno male che, mentre stiamo per congedarci e andarcene, è lui a ricordarsene e a fermarci.
Mette tanta malinconia, ripensarci oggi, a ventidue anni di distanza, quando Salvadore se n’è già andato da un anno e mezzo, in un freddo gennaio, mentre la sua amata Juve giocava un insensato, immeritato e immotivato campionato di serie B. No, meglio ricordarlo quando, fiero e senza timore, senza parastinchi e con i calzettoni giù fino alle caviglie, usciva dall’area palla al piede e scendeva nella metà campo avversaria per cercare l’assalto decisivo.
Ciao Billy, grazie di tutto!