“La Juventus è stata una delle ragioni della mia vita. Amo questa squadra, questa società e questi colori”.
Queste parole non le ha dette un dirigente, un tifoso o un giocatore della Juve. Queste parole le ha dette, grato e con le lacrime agli occhi, Roberto Bettega, nel febbraio 2008, ai magistrati della procura di Torino durante l’interrogatorio nell’inchiesta sui conti societari e sulle cosiddette plusvalenze.
Grato perché bobbigol da questi colori ha avuto tanto, ha dato e avuto tanto.
Chi l’avrebbe mai detto che il fastoso e poco festoso sodalizio tra la società più seguita al mondo e uno dei suoi figli più ammirati, celebrati e rispettati dovesse avere il suo triste epilogo proprio dinanzi ai freddi, e non sempre imparziali, burocrati di un tribunale.
Ma dove non riuscì un’infezione polmonare ed il portiere belga Munaron, è riuscita la sporca inquisizione di calciopoli e il processo più vergognoso che la storia moderna ricordi, vergognoso quasi quanto il successivo processo di normalizzazione.
Già un’altra volta si era visto Bobbygol piangere per davvero e lo aveva fatto a lungo.
Era il 7 maggio 2006 e la Juve si accingeva a conquistare, sul campo, il suo ventinovesimo scudetto. Era il giorno di Juventus – Palermo e chiunque ha il cuore e il sangue bianconeri lo ricorderà come la caduta agli inferi di questi gloriosi colori.
Milioni di tifosi hanno avuto la sensazione, ineluttabile, di essere stati abbandonati, traditi e venduti, chissà se almeno per trenta denari.
Sembra passato un secolo, eppure quello è stato il giorno in cui la Juve orgogliosa e gioiosamente arrogante delle oculate e mirate scelte societarie ha lasciato il posto a una giostra senza fine, con il nostro in tribuna a fare da spartiacque, con le sue lacrime, tra la ricercata antipatia della Triade e i sorrisi beoti propinati a piene mani dai suoi indegni successori.
Dopo quel giorno, infatti, le fiere figure della Triade al centro del campo nei pre-partita saranno indegnamente soppiantate da gente palesemente inadeguata, anche nei sorrisi..
Grato perché bobbigol da questi colori ha avuto tanto, ha dato e avuto tanto.
Chi l’avrebbe mai detto che il fastoso e poco festoso sodalizio tra la società più seguita al mondo e uno dei suoi figli più ammirati, celebrati e rispettati dovesse avere il suo triste epilogo proprio dinanzi ai freddi, e non sempre imparziali, burocrati di un tribunale.
Ma dove non riuscì un’infezione polmonare ed il portiere belga Munaron, è riuscita la sporca inquisizione di calciopoli e il processo più vergognoso che la storia moderna ricordi, vergognoso quasi quanto il successivo processo di normalizzazione.
Già un’altra volta si era visto Bobbygol piangere per davvero e lo aveva fatto a lungo.
Era il 7 maggio 2006 e la Juve si accingeva a conquistare, sul campo, il suo ventinovesimo scudetto. Era il giorno di Juventus – Palermo e chiunque ha il cuore e il sangue bianconeri lo ricorderà come la caduta agli inferi di questi gloriosi colori.
Milioni di tifosi hanno avuto la sensazione, ineluttabile, di essere stati abbandonati, traditi e venduti, chissà se almeno per trenta denari.
Sembra passato un secolo, eppure quello è stato il giorno in cui la Juve orgogliosa e gioiosamente arrogante delle oculate e mirate scelte societarie ha lasciato il posto a una giostra senza fine, con il nostro in tribuna a fare da spartiacque, con le sue lacrime, tra la ricercata antipatia della Triade e i sorrisi beoti propinati a piene mani dai suoi indegni successori.
Dopo quel giorno, infatti, le fiere figure della Triade al centro del campo nei pre-partita saranno indegnamente soppiantate da gente palesemente inadeguata, anche nei sorrisi..
Ma procediamo con ordine.
Roberto Bettega, uno juventino vero, nasce il 27 dicembre 1950 nella provincia di Torino da una famiglia semplice e dignitosa. Ambidestro naturale, fortissimo di testa in tutti i sensi, il nostro, che unisce tecnica a potenza, intelligenza a passione, convince il papà, che fa il carrozziere, ad iscriverlo alla scuola calcio della sua squadra del cuore: la Juve. Con la piccola maglia bianconera Robertino segue i consigli di Mario Pedrale che vede in lui un attaccante alla Charles e lo dice chiaramente quando lo affida alla prima squadra qualche anno dopo.
Ma il nostro ha solo 18 anni e la squadra è reduce da un decennio non proprio esaltante. Sono appena finiti gli anni sessanta e, fortunatamente, anche i caffè di troppo. Adesso si teme che il giovane Bettega giochi poco o possa bruciarsi se subito inserito nella nuova formazione bianconera che gli intenditori, a ragione, già definiscono fortissima.
La società, quindi, presta Robertino al Varese, una squadra di serie B allenata da un certo Nils Liedholm che, dopo averlo notato durante una sfida tra le primavere delle due squadre e dopo essersi sincerato sulla sua reale età, lo chiede espressamente per la prima squadra e non ha poi timore a lanciarlo nel duro campionato cadetto poco più che maggiorenne.
Viene presto ribattezzato “Bobbigol” o “penna bianca” in omaggio alle sue doti di cannoniere “alla inglese” e alla precoce canizie che ci aiuterà a distinguere e seguire la sua testa prodigiosa prima che svetti sulle altre in area di rigore.
Bettega, insieme al Varese, è la rivelazione del campionato di serie B 1969/1970 e vince la classifica dei marcatori con 13 reti così come la Coppa Ponti riservata al miglior giocatore della serie B.
L’anno dopo ritorna alla Juve e indossa, sin dalla prima giornata del campionato di serie A, la maglia da titolare, incarnando alla perfezione il ruolo da predestinato che onorerà con la rete del successo all’esordio contro il Catania e con altri dodici e preziosi gol.
Bobbygol è finalmente a casa, se la intende a meraviglia coi compagni di reparto e ha la fiducia incondizionata di tutto l’ambiente. Del tecnico Armando Picchi e della società che adesso è presieduta da un pezzo di storia juventina, quel Giampiero Boniperti che il nostro avvicenderà egregiamente una trentina di anni dopo e che è affiancato dal direttore generale Italo Allodi che, per anni, sarà il re indiscusso del calcio e del mercato nazionale.
Dopo la prematura scomparsa del tecnico, la squadra viene affidata a Cestmir Vycpalek, uno a cui non si può rimproverare nulla se non certe scomode parentele.
È, questa, la Juve dei Capello, Causio, Spinosi, Salvadore e Haller, ma è e sarà anche la Juve di Bettega.
I più, decenni dopo, ricorderanno, del campionato 1971/1972, soprattutto il gol di tacco “al rallentatore” fatto dal nostro in un meraviglioso Milan - Juve 1 a 4 del 31 ottobre 1971.
E’ il Milan di Nereo Rocco e in porta c’è un certo Cudicini, detto anche il “ragno nero”.
Bettega - nel calciare il pallone di tacco spalle alla porta, col pallone che salta irregolare prima di farsi calamitare dal suo piede destro - dà l’impressione di aver fatto la cosa più ovvia, anzi di aver fatto l’unica cosa che si potesse fare in quel momento. Ma realizza un gol bellissimo, un gol bello e importante che fa impazzire la mezza Italia bianconera e fa letteralmente togliere il cappello all’allenatore rossonero che lo guarda incantato in mezzo a uno stadio incredulo e ammirato.
Niente male Robertino, cresciuto a pane e Juve e proveniente direttamente dagli allevamenti bianconeri, ma il destino cinico e baro decide di far pagare presto il conto al predestinato ragazzino coi capelli brizzolati.
A Bettega viene diagnosticata un’infiammazione della pleura, la sottile membrana che riveste il polmone e la parete interna della cavità toracica. La causa della pleurite è una pericolosa polmonite che ha colpito il nostro campione che, però, fa in tempo a stendere la Fiorentina in casa, a guarire e a tornare giusto per festeggiare la vittoria dell’ennesimo scudetto dell’armata bianconera.
Bobbygol si rialza per la prima volta, nonostante molti avessero dubitato delle sue reali possibilità di recupero. La malattia è solo un ricordo che fortunatamente ingiallisce e scompare insieme all’immagine del capodanno del 1972 in cui si vede uno smunto atleta, poco più che ventenne, giacere in maglietta bianca su di un letto di ospedale.
Ma il futuro dirigente bianconero ritorna più forte di prima e ricava dalla malattia un rinnovato senso del coraggio e un ineguagliabile attaccamento a quei colori che, almeno allora, avevano continuato a credere in lui, nonostante tutto.
E’ l’idolo incontrastato dei tifosi che scorgono in lui uno juventino vero. Bettega ricambia tanto affetto trascinando la Juve a un altro titolo da Campione d’Italia, il secondo titolo consecutivo, mettendosi alle spalle ancora il Milan.
E’ l’alba di una delle squadre più forti di tutti i tempi, quella che poi creerà le basi per la Juve di Platini e dei campioni del mondo del 1982.
È la Juve di Giovanni Trapattoni, una squadra che vede gente come Zoff tra i pali, Benetti e Furino a centrocampo, la coppia Cuccureddu-Gentile in difesa, Bettega, Causio e Boninsegna in attacco.
L’armata bianconera conquista così, nel 1977, il suo primo titolo europeo, una coppa Uefa vinta in finale contro l’Athletic Bilbao. E’ proprio nell'inferno basco che il ventisettenne Bettega regala, con un suo magnifico gol, la coppa ai sostenitori della vecchia signora.
Il giocatore alla fine collezionerà tredici campionati da protagonista, tornei in cui segnerà una valanga di reti, oltre cento solo in serie A, quasi tutte alla Bettega, e contribuirà a cucire sulle maglie bianconere la seconda stella, tanto cara all’Avvocato.
Nel momento in cui deciderà di seguire i dollari canadesi per chiudere la carriera da calciatore ai Toronto Blizzard, la Juve di Roberto Bettega, in tredici campionati, ha vinto sette scudetti (mentre per tre volte è arrivata seconda), 2 Coppe Italia e 1 Coppa Uefa. Ma, soprattutto, la Juve di Bettega ha fatto innamorare di questa squadra milioni di tifosi e ha distinto per sempre gli anni settanta come il decennio bianconero.
Anche se in ritardo, di Bettega si innamora anche la nazionale. Ma sarà purtroppo una parentesi breve e a tratti dolorosa quella di Bobbygol in maglia azzurra. Esordisce il 5 giugno 1975 convocato dal c.t. Fulvio Bernardini. Ma a credere fermamente nel nostro è il suo successore, quell’Enzo Bearzot che porterà i colori azzurri sul tetto del mondo. Nel luglio del 1982 la maglia azzurra è però condita a forti tinte bianconere. E’ infatti lo storico gruppo juventino a guidare la nazionale alla conquista del mondiale. Ad alzare e meritare la coppa del mondo vi sono Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e Rossi che diventerà capocannoniere del campionato ed a cui il commissario tecnico aveva accordato una straordinaria e inaspettata fiducia, dal momento che Pablito era reduce da una lunga inattività.
All’appello manca solo il Bobbygol nazionale, lasciato a casa per l’ennesimo e beffardo infortunio.
Bettega aveva già trascinato l’Italia, quattro anni prima, alla qualificazione per i mondiali argentini e si era meritatamente guadagnato la fiducia anche del clan azzurro. Memorabile il gol che il 17 novembre 1976 piega l’Inghilterra all’Olimpico. E’ il classico gol alla Bettega: volo plastico, impatto di testa e gli avversari, coi piedi per terra, ad ammirare.
Anche nell’Argentina dei generali, Bettega ben figura nel gruppo dei giovani di Bearzot che si piazzano al quarto posto nello stupore della critica, soprattutto nazionale.
Quattro anni dopo, con lo stesso gruppo bianconero e con quello stesso ct, il posto al centro dell’attacco azzurro è garantito per bobbigol, ma la sorte non smette di perseguitarlo.
E’ il 4 novembre 1981 e a Torino si gioca Juventus – Anderlecht di Coppa dei Campioni. Il portiere belga Munaron si rende protagonista di un’uscita assassina sull’attaccante bianconero che, purtroppo, ha la peggio.
Bettega subisce il distacco totale del legamento collaterale-mediale del ginocchio sinistro. C’è chi parla di carriera finita, di sicuro il nostro perde la possibilità di partecipare e vincere la coppa del mondo di calcio, un colpo duro anche per Enzo Bearzot, grande estimatore del penna bianca nazionale che considera un figlio e che dovrà ripiegare chiamando in rosa gente di minor peso e spessore come spillo Altobelli.
L’ex ct scriverà più tardi nel suo libro “Il gusto di vincere”: “....Bettega è l'uomo decisivo di questa nazionale [...] Bettega non finisce mai di entusiasmarmi, fa prodezze che altri giocatori si sognano...”.
Dopo la sbornia mondiale Bettega si rialza per la seconda volta e riesce a ritornare in maglia azzurra, ma è solo un’apparizione, l’ultima. Il 16 aprile 1983 si gioca Romania – Italia e gli azzurri, orfani della classe bianconera, riescono a perdere uno a zero.
C’è tempo anche per l’epilogo con la maglia della Juve. Dopo aver sfiorato per la prima volta la Coppa dei Campioni il 30 maggio 1973 nella terrificante finale persa contro l’Ajax, a Bettega tocca chiudere la carriera in bianconero con un’altra cocente delusione. E’ il 25 maggio 1983 e la Juventus è arrivata in finale trionfalmente e quindi sorretta da un grande entusiasmo che, alla fine, risulterà deleterio. La Juve, in quegli anni è la squadra più forte d’Europa, ma nel calcio, si sa, non sempre sono i più forti a vincere partite e trofei. All’inizio della gara un bel colpo di testa di Bettega potrebbe cambiare le sorti della gara, ma il portiere tedesco para, non altrettanto fa Zoff, invece, all’ottavo minuto, facendosi sorprendere da un tiro non irresistibile di un certo Felix Magath, un signore che passerà alla storia soprattutto per questa vicenda.
E’ la partita che decide la Coppa ed è anche l’ultima apparizione in bianconero del nostro campione.
Finita la carriera da calciatore e archiviata, fortunatamente, la parentesi da commentatore televisivo delle reti Mediaset, Bettega, circa dieci anni dopo, è chiamato a sostituire Giampiero Boniperti e assume la vice-presidenza della società di Corso Galileo Ferraris. Insieme al re del mercato Luciano Moggi e al manager di casa Agnelli Antonio Giraudo dà vita alla dirigenza più vincente della storia bianconera, quella che resterà nota ai più come la “Triade”, capace di vincere in dodici anni: 7 Scudetti, 1 Coppa Italia, 4 Supercoppe Italiane, 1 Coppa dei Campioni, 1 Trofeo Intertoto, 1 Supercoppa Europea e 1 Coppa Intercontinentale.
Ma una vita da bianconero e una serie impressionante di successi da giocatore e da dirigente non bastano perchè Bettega salvi la scrivania da vice-presidente. In realtà, dopo il terremoto di Calciopoli e dopo la caduta di tutte le cariche societarie, l’ex vice-presidente era rimasto nell’organico solo come consulente.
I retroscena raccontano di un clima da separato in casa, con l’ex "schizzo" Tardelli - chiamato a impreziosire il Consiglio di Amministrazione e che invece sarà ricordato solo per le sue polemiche dimissioni - che non rivolge la parola a Bettega e non lo fa neanche nelle poche volte che lo incontra in ascensore.
Altre indiscrezioni parlano del forte interessamento, per l’allontanamento definitivo del consulente dal sangue bianconero, del presidente Uefa ed ex campione bianconero Michel Platini, deciso a boicottare la nascita del G14 di cui Roberto Bettega è, da anni, convinto promotore e sostenitore e che invece rischierebbe di mettere in secondo piano l’organismo calcistico tradizionale e la sua milionaria Champions League.
La strada del licenziamento, o meglio del mancato rinnovo, è ormai tracciata. E se venticinque anni prima il nostro, da giocatore e bandiera juventina, non esitò ad accusare la testata della "Domenica Sportiva" di "terrorismo giornalistico" per aver - neanche tanto velatamente, ma in modo infondato - insinuato che anche la società bianconera fosse coinvolta nello scandalo del calcio scommesse (corsi e ricorsi...), oggi Bobbygol, delegittimato dentro e fuori, continua a preferire la strada del silenzio e accetta senza fiatare il clima pesante che la nuova, simpatica e geniale dirigenza juventina gli riserva.
Sono lontani i tempi in cui l’Avvocato Agnelli, all’addio al calcio di Roberto, lo battezza "bianconero a vita".
La “nuova” Juve vuole invece dare un taglio netto al passato e almeno in questo, bisogna ammetterlo, riesce in pieno. Vengono svenduti campioni e trofei, abbandonati ricorsi, piani strategici e i dirigenti che li hanno ideati. La proprietà preferisce, incredibilmente, affidare la rinascita del club bianconero a ex organizzatori di tornei di tennis e ad allenatori di pallavolo, così come investire della legale e mediatica rappresentanza un individuo che sta al calcio e alla comunicazione come Erode al circolo dell’infanzia.
Siamo alla fine e arriva un epilogo vergognoso. L’unica vera bandiera rimasta in casa Juve, oltre al capitano Alessandro Del Piero, è liquidata nelle poche e fredde righe di un comunicato. I nuovi dirigenti, vocabolario francese-italiano alla mano, partoriscono un autentico capolavoro e mandano alle agenzie questo commiato: “La Juventus e Roberto Bettega comunicano che nei prossimi giorni giungerà a scadenza il rapporto di collaborazione che per molto tempo è stato fonte di reciproche soddisfazioni. Bettega saluta con il cuore la Famiglia, la Juventus e i suoi tifosi, parti indimenticabili della sua vita. La Juventus ringrazia con sincero affetto Roberto Bettega per l’impegno e per la passione con cui si è dedicato alla Società e gli augura per il futuro ogni successo”.
E’ ormai la mattina del 22 giugno 2007 e chissà se Robertino avrà mai la forza per rialzarsi per la terza volta..
Per uno strano scherzo del destino è il Tacuary di Asunción che, pur avendo le maglie bianconere, non è mai stata definita da penna bianca la sua “ragione di vita”, ad assegnare al Bobbygol nazionale il ringraziamento negatogli dalla Juve e un autentico record: Bettega è forse l’unica persona vivente che può vantare l’intitolazione di uno stadio di calcio. E’, infatti, a lui dedicato lo stadio della società calcistica paraguaiana.
Ben altra sorte gli è invece riservata in patria dove, nel sempre più chiaro monopoli bianconero, viene sbattuto in prigione senza neanche passare da Via Inselci.
Per uno strano scherzo del destino è il Tacuary di Asunción che, pur avendo le maglie bianconere, non è mai stata definita da penna bianca la sua “ragione di vita”, ad assegnare al Bobbygol nazionale il ringraziamento negatogli dalla Juve e un autentico record: Bettega è forse l’unica persona vivente che può vantare l’intitolazione di uno stadio di calcio. E’, infatti, a lui dedicato lo stadio della società calcistica paraguaiana.
Ben altra sorte gli è invece riservata in patria dove, nel sempre più chiaro monopoli bianconero, viene sbattuto in prigione senza neanche passare da Via Inselci.