Chi l’ha detto che i giornalisti sportivi non siano capaci di trattare anche temi più impegnativi dei centimetri di fuorigioco, dei coni d’ombra e dei gol fantasma?
E soprattutto che lo facciano con la stessa competenza ed obiettività con cui discettano sul colore dei cartellini e sulla volontarietà di un fallo di mano?
Senza nulla voler togliere ad Aldo Biscardi, caposcuola scanzonato ed autoironico di questa tendenza, che sul processo del lunedì ha costruito un’epopea, va segnalato un intervento apparso sulla Gazzetta online del 13 aprile 2010, a firma Galdi e Piccioni, intitolato "Napoli, Moggi all’attacco - Tutti i perché di Calciopoli", destinato a suscitare vasta eco nel dibattito sulle riforme istituzionali del nostro Paese.
Per il momento è stato ripreso dal solo Zazzaroni sul suo blog, con un titolo, "Vero e Falso", che non lascia dubbi sulla sua entusiastica adesione alle tesi dei due colleghi della Rosea, ma c’è da giurarci che ci sarà un seguito.
Rispondendo ad una domanda sulle differenze tra il processo sportivo del 2006 e quello penale in corso a Napoli, si dice che il processo sportivo è "un processo sui generis, definito di "giustizia domestica", e che è interno all’ordinamento sportivo". Di più, "comporta l’inversione dell’onere della prova, per cui è l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Il contrario di ciò che accade in sede penale".
L’impatto è di quelli forti, un vero tsunami istituzionale. Calciopoli fa anche di questi miracoli.
E sì, perché, prima di questo intervento, nessuno aveva mai pensato che la così detta giustizia sportiva fosse giustizia in senso tecnico, che i giudicanti fossero giudici e che il procedimento fosse un processo.
Due articoli della Costituzione, il 102 e il 103, infatti stabiliscono un divieto di costituire giurisdizioni speciali rispetto alle giurisdizioni previste dalla Costituzione stessa: quella ordinaria dei Tribunali e delle Corti, quella amministrativa del TAR e del Consiglio di Stato, quella militare, quella contabile della Corte dei Conti e quella della Corte Costituzionale sui reati ministeriali.
La giustizia sportiva non è prevista e quindi, si pensava finora, non si può parlare di giudici e di processi in campo sportivo, ma al più di procedimenti amministrativi di natura disciplinare, tanto che contro le sue decisioni è previsto il ricorso alla giustizia amministrativa, TAR in primo grado e Consiglio di Stato in secondo.
La conseguenza è che gli atti della giustizia sportiva non sono sentenze, ma provvedimenti di natura amministrativa, in qualsiasi momento revocabili dalla stessa autorità che li pronunciò, principio generale peraltro recepito anche dal così detto codice di giustizia sportiva.
Ma che succede se un tribunale ordinario dovesse affermare l’insussistenza di fatti, dichiarati invece sussistenti dalla così detta giustizia sportiva per infliggere sanzioni di rilievo personale e patrimoniale ?
Se ne potrebbe dedurre che vi sia un obbligo per quella autorità, nel nostro caso la FIGC, di conformarsi alle sentenze, rimovendo da un lato gli effetti rimovibili (restituzione degli scudetti ai legittimi proprietari) e dall’altro risarcendo i danneggiati per gli effetti irreversibili prodottisi.
Ed in fondo era quello che alla FIGC suggeriva l’illustre parere di Caianiello, quando si trattò di sanzionare sul piano sportivo l’Inter per il passaporto falso di Recoba: attenti a non fare troppi danni, per esempio comminando la retrocessione, perché, se il Tribunale poi assolve dai reati contestati il vostro tesserato, dovrete risponderne anche patrimonialmente. E, saggiamente, in quel caso la FIGC diede un buffetto all’Inter in attesa degli eventi, una piccola ammenda. Il processo penale si concluse con una condanna patteggiata, ma il caso non venne ripreso per sanzionare più congruamente la società milanese. Gli eventi attesero invano la FIGC.
Forse è questo precedente che fa dire ai tre giornalisti che si tratta di una giustizia domestica, nel senso di interna all’ordinamento sportivo, se non si vuole offendere lo stesso ordinamento sportivo; ma all’interno dell’ordinamento costituzionale e statale pare difficile potersi parlare di una “giustizia” e di un ordinamento separato. O meglio, pareva difficile dirlo prima che lo dicesse la Gazzetta e lo ripetesse Zazzaroni.
Ma le novità non finiscono qui. Apprendiamo che davanti ai giudicanti, chiamiamoli così, dell’ordinamento sportivo l’onere della prova miracolosamente si inverte: è l’incolpato a dover dimostrare la propria innocenza, non il contrario.
Certezze secolari, ritenute universalmente valide non solo nei processi ma anche in tutte le sedi disciplinari, da quelle degli impiegati pubblici a quelle degli stessi giornalisti, vengono messe in discussione perché lo sport avrebbe un ordinamento sui generis (un tocco di classicità non guasta), un genere tutto suo.
Scusate se è poco. Un onere della prova così concepito non l’avevamo mai sentito, ma l’autorevolezza dei suoi sostenitori ci induce alla cautela.
Aspettiamo ulteriori sviluppi prima di chiamarlo l’onere del provolone.
Orrori di stampa/3 - Il sasso nella piccionaia del terribile Ivan
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