L'anatema di Scudamore.
Per discutere le differenze tra le due nuove legislazioni finanziarie, quella europea e quella inglese, è forse opportuno rifarsi alle recentissime dichiarazioni del boss della Premier League, Richard Scudamore, che si è detto convinto dell'irrealizzabilità delle normative UEFA. Come punto essenziale lamenta l'impossibilità di giungere a parametri unici, quando le differenti legislazioni nazionali presentano difformità enormi.
Non c'è una politica fiscale comune verso i club calcistici: la tassazione del 51% sugli stipendi imposta da Brown in Inghilterra deve confrontarsi con il 20% spagnolo, e con le rateizzazioni fiscali e i debiti pendenti con l'Erario delle società italiane. Non ci sono regole comuni in termini di immigrazione: i club inglesi possono solo acquistare extracomunitari che abbiano una certa percentuale di presenze in Nazionale, quindi hanno minore competitività su giovani africani e sudamericani. Non ci sono regole comuni in termine di sussidi per gli stadi: costruiti dalle squadre inglesi contando sulle proprie forze finanziarie, mentre soprattutto in Italia si prospettano veri e propri aiuti di stato per regalare stadi a società pesantemente indebitate, e con un volume di introiti decisamente basso.
Infine, e qui emerge il punto nodale: se entrate e uscite sono legate a doppio filo, con le seconde che non possono eccedere le prime, bene le prime devono essere controllate con severità, ogni centesimo. Così in sunto si esprime Scudamore che, possiamo immaginare, faccia riferimento a legislazioni e controlli in tema di bilancio particolarmente allegri, come quelli italiani, che hanno consentito, nel corso degli anni, introiti gonfiati a botte di plusvalenze fittizie, vendite del marchio a se stessi, e amenità del genere.
La riforma inglese
Naturalmente, come punto di orgoglio, continuiamo a sottolineare: tranne la Juve.
E se Blanc si atteggia a discepolo di Platini, possiamo ben dire che Giraudo sicuramente ne è stato un antesignano, ma per il futuro, probabilmente immaginava di poter sposare con successo gli aspetti commerciali con quelli sportivi, aumentando i volumi di investimento, con una rigorosa logica aziendale, sul modello inglese.
Andremo prossimamente ad analizzare le caratteristiche più salienti della regolamentazione sul fair play finanziario con l'aiuto del nostro impeccabile Furino1945: ci basterà qui considerare il nodo gordiano su cui si scontrano le due diverse visioni.
Il calcio inglese ha approvato, nella scorsa settimana, una regolamentazione interna molto interessante per quanto concerne i bilanci. In estrema sintesi, la revisione annuale dei bilanci, che avverrà, come ovvio (non da noi) sul consolidato, sarà accompagnata da una serie di misure di prevenzione per l'indebitamento. I club dovranno dimostrare di poter adempiere agli obblighi gestionali, di ripagare i creditori come da accordi, e di poter onorare i contratti firmati con la Premier e i suoi partners commerciali. Una commissione valuterà l'effettiva solidità del club, non solo in ottica presente, ma, per l'appunto, in generale per quanto concerne anche il futuro. Se i club non verranno ritenuti idonei, ossia ragionevolmente non in grado di poter onorare i debiti, il ruolo della commissione diventerà attivo e verrà imposto un budget al club, fino al blocco dei trasferimenti e all'imposizione di misure per contenere le spese.
Naturalmente ogni magheggio finanziario all'italiana comporterebbe misure severissime: l'Inter andrebbe in questa sorta di "amministrazione controllata" prefigurata, per un decennio. Questo modello ha il pregio di proteggere gli investimenti di lungo periodo, non imponendo l'attivo in bilancio a ogni stagione, controllando però le spese e impedendo investimenti folli che potrebbero portare alla rovina del club, una volta che il mecenate se ne fosse stancato.
E' un modello di legislazione sui bilanci, ma anche un modello di business.
Il nodo gordiano.
La UEFA invece, secondo le parole di Platini, vuole "separare le questioni commerciali da quelle sportive" e imporre, per quanto concerne le sue manifestazioni, un rigido rapporto tra entrate e uscite, derogabile solo in casi straordinari, che la Premier rifiuta.
Da un lato questa regolamentazione protegge i club da investimenti in altri settori che potrebbero rivelarsi rischiosi assai più di quanto preventivato dal complesso di regole inglesi, dall'altro rischia anche di impedire il pieno sviluppo delle attività connesse, di fatto impoverendo i club, e bloccandone l'evoluzione: soprattutto livellando artatamente il gap competitivo creatosi tra le squadre inglesi e il resto d'Europa. Gap formatosi grazie alle migliori competenze manageriali delle squadre britanniche, non certo per gli aiuti di stato spesso piovuti altrove.
La UEFA non può intervenire su questioni di competenza prettamente dell'Unione Europea o degli stati, come l'immigrazione, la pressione fiscale, gli aiuti statali, le leggi sul falso in bilancio. La specificità dello sport è stata, come ricordato, recentemente negata dalla stessa UE per quanto concerne il 6+5 proposto da Blatter. La Premier, d'altronde, non ha intenzione di vedere azzerato, con regole troppo stringenti, il vantaggio costruito in questi anni, su basi che sono ritenute meritocratiche, e un mercato attraente per gli investitori stranieri, per poi addirittura trovarsi con pesanti svantaggi competitivi determinati dalla disarmonia delle legislazioni nazionali.
Gli investimenti, che hanno ottenuto una linea di credito sostenibile e motivata, quelli dell'Arsenal o del Manchester o, perché no, del Real, andrebbero distinti da quelli che sono debiti e non si possono chiamare in altra maniera dando un'occhiata a un decennio di bilanci in cui non si registrano evoluzioni significative tali da poter pensare a un imminente rientro, anzi a un aumento smisurato del debito stesso. E' il caso dell'Inter o del Chelsea (anche se anche il club londinese ha preso una china assai più morigerata).
Per la verità una tale distinzione appare non semplice da implementare.
Ma d'altro canto, il margine di deroga sul rigido rapporto entrate-uscite, sensata concessione allo sviluppo del business presente nella regolamentazione UEFA, si accompagna, come detto, alle differenze legislative nazionali.
La speculazione.
La legislazione UEFA ha, insomma, indubbi meriti, ma trova i suoi limiti nelle inderogabili leggi europee. La distanza con le posizioni dei club inglesi (che poi sono americani, arabi, cinesi, russi) si fonda, in ultima istanza, più che sulla separazione degli aspetti commerciali da quelli sportivi, ampiamente perfettibile e su cui si può trovare, immaginiamo, un punto d'incontro, sulla speculazione legata alla compravendita degli stessi club. In Inghilterra abbiamo visto come, per entrare nel mondo del calcio, uomini d'affari da ogni parte del pianeta ottengano linee creditizie al fine di comprare il club. La gestione della squadra è sostanzialmente condotta con criteri affaristici e improntati alla competizione sia commerciale che sportiva. L'incentivo è naturalmente a mantenere una gestione ottimale dei risultati sportivi, che aumentano il valore del club, e prospettive di crescita economica, in termini di introiti e di debiti sotto controllo. In questo modo i proprietari possono maturare una forte plusvalenza sulla cessione futura del club, che diventa così un asset da far fruttare e vendere, come qualsiasi altro.
Non considerando la questione in termini ideologici, in questo non c'è niente di male, se non la tendenza, riscontrata in alcuni casi, ad aumentare il volume di investimento in termini di entrate, ma lasciando ogni volta al prossimo proprietario il compito di ridurre le spese.
Un club per accrescere il proprio valore ed essere appetibile per la vendita deve mantenere una gestione produttiva: un carrozzone pieno di debiti non lo comprerebbe nessuno. Per intenderci: se per comprare il Manchester United la fila di investitori sarebbe lunga, per comprare l'Inter toccherebbe fare una di quelle aste al ribasso, di moda di questi tempi su internet.
La regolamentazione UEFA che impedisce, nella maggior parte di casi, il maturare di debiti per gli investimenti di lungo periodo sarebbe di grande impatto su un ambiente di affari come quello inglese, di fatto frenando la compravendita dei club stessi. Il calcio non è roba per finanzieri. Ma nemmeno per mecenati.
A la guerre?
La domanda è spontanea: si va alla guerra?
Consideriamo un'altra riforma, attiva dalla prossima stagione, in Inghilterra. Le rose saranno bloccate a 25 giocatori, di cui 8 dovranno essere "giocatori locali" sotto i 21 anni. Per "giocatore locale" si intende, come da definizione UEFA, un giovane cresciuto nel settore giovanile nazionale per 3 anni prima dei 21, non potendosi in alcun modo realizzare discriminazioni tra giocatori comunitari. Federico Macheda sarà, tra un anno, un "giocatore locale" inglese, ad esempio.
E' una riforma importante e significativa, che mira a contenere i costi delle rose. Una riforma coraggiosa, che ottempera alle vaghe direttive UEFA, in modo esemplare. La UEFA infatti impone una quota di giocatori locali in tutti i campionati europei, ma la regola viene facilmente aggirata non ponendo limiti alle rose, come fa la FIGC. In questo modo su 40 giocatori messi in rosa, 8 giovani locali si trovano facilmente.
E' una riforma che nel breve potrebbe far perdere competitività alle squadre inglesi, ma nel lungo periodo essere la base di una maggiore competitività, fondata su basi molto solide. Tutto ciò a patto che la Premier riesca a continuare ad attrarre, grazie al suo ottimo sistema educativo e alle ancora maggiori possibilità di esordire sin da subito tra i migliori, i giovani europei più forti.
Questo potrebbe essere però condizionato da un'eventuale ulteriore riforma UEFA che, come prospettato, metta un blocco totale ai trasferimenti dei giocatori sotto i 18 anni.
Certo il prossimo anno le squadre inglesi saranno costrette a tagliare le rose: questo avrà un impatto positivo sulla riduzione del monte ingaggi in generale, e si può prevedere anche che aumenteranno di conseguenza le risorse per gli ingaggi dei grandi giocatori, più propensi alla Spagna ultimamente, per ragioni fiscali.
Certo: quando si è costretti a vendere, il prezzo lo fa l'acquirente, ed è prevedibile qualche minusvalenza importante. Nel lungo periodo, però, sempre a patto che le regole sui giovani rimangano quelle odierne, i vantaggi sono molti. Bilanci più sostenibili, settori giovanili forti, e quindi basi solide per le società. Insomma il modello di Platini.
Può essere questa una mossa che va a chiudere il conflitto, attestando la buona volontà dei club inglesi nell'imboccare la strada suggerita dalla UEFA e aprendo la strada al compromesso nella regolamentazione sui bilanci? Oppure va intesa come una ricerca ancora maggiore di autonomia, dando ad intendere che le strade della Premier e quelle della Champions andranno a dividersi nel 2012?
Continueremo a seguire, come stiamo facendo, nella sezione NEWS WEEK, le novità a riguardo.
Per ora un solo fatto è certo: ci sono due proposte serie per un calcio migliore, quella di Platini e quella inglese. In Italia continuiamo a fregarcene.
Per discutere le differenze tra le due nuove legislazioni finanziarie, quella europea e quella inglese, è forse opportuno rifarsi alle recentissime dichiarazioni del boss della Premier League, Richard Scudamore, che si è detto convinto dell'irrealizzabilità delle normative UEFA. Come punto essenziale lamenta l'impossibilità di giungere a parametri unici, quando le differenti legislazioni nazionali presentano difformità enormi.
Non c'è una politica fiscale comune verso i club calcistici: la tassazione del 51% sugli stipendi imposta da Brown in Inghilterra deve confrontarsi con il 20% spagnolo, e con le rateizzazioni fiscali e i debiti pendenti con l'Erario delle società italiane. Non ci sono regole comuni in termini di immigrazione: i club inglesi possono solo acquistare extracomunitari che abbiano una certa percentuale di presenze in Nazionale, quindi hanno minore competitività su giovani africani e sudamericani. Non ci sono regole comuni in termine di sussidi per gli stadi: costruiti dalle squadre inglesi contando sulle proprie forze finanziarie, mentre soprattutto in Italia si prospettano veri e propri aiuti di stato per regalare stadi a società pesantemente indebitate, e con un volume di introiti decisamente basso.
Infine, e qui emerge il punto nodale: se entrate e uscite sono legate a doppio filo, con le seconde che non possono eccedere le prime, bene le prime devono essere controllate con severità, ogni centesimo. Così in sunto si esprime Scudamore che, possiamo immaginare, faccia riferimento a legislazioni e controlli in tema di bilancio particolarmente allegri, come quelli italiani, che hanno consentito, nel corso degli anni, introiti gonfiati a botte di plusvalenze fittizie, vendite del marchio a se stessi, e amenità del genere.
La riforma inglese
Naturalmente, come punto di orgoglio, continuiamo a sottolineare: tranne la Juve.
E se Blanc si atteggia a discepolo di Platini, possiamo ben dire che Giraudo sicuramente ne è stato un antesignano, ma per il futuro, probabilmente immaginava di poter sposare con successo gli aspetti commerciali con quelli sportivi, aumentando i volumi di investimento, con una rigorosa logica aziendale, sul modello inglese.
Andremo prossimamente ad analizzare le caratteristiche più salienti della regolamentazione sul fair play finanziario con l'aiuto del nostro impeccabile Furino1945: ci basterà qui considerare il nodo gordiano su cui si scontrano le due diverse visioni.
Il calcio inglese ha approvato, nella scorsa settimana, una regolamentazione interna molto interessante per quanto concerne i bilanci. In estrema sintesi, la revisione annuale dei bilanci, che avverrà, come ovvio (non da noi) sul consolidato, sarà accompagnata da una serie di misure di prevenzione per l'indebitamento. I club dovranno dimostrare di poter adempiere agli obblighi gestionali, di ripagare i creditori come da accordi, e di poter onorare i contratti firmati con la Premier e i suoi partners commerciali. Una commissione valuterà l'effettiva solidità del club, non solo in ottica presente, ma, per l'appunto, in generale per quanto concerne anche il futuro. Se i club non verranno ritenuti idonei, ossia ragionevolmente non in grado di poter onorare i debiti, il ruolo della commissione diventerà attivo e verrà imposto un budget al club, fino al blocco dei trasferimenti e all'imposizione di misure per contenere le spese.
Naturalmente ogni magheggio finanziario all'italiana comporterebbe misure severissime: l'Inter andrebbe in questa sorta di "amministrazione controllata" prefigurata, per un decennio. Questo modello ha il pregio di proteggere gli investimenti di lungo periodo, non imponendo l'attivo in bilancio a ogni stagione, controllando però le spese e impedendo investimenti folli che potrebbero portare alla rovina del club, una volta che il mecenate se ne fosse stancato.
E' un modello di legislazione sui bilanci, ma anche un modello di business.
Il nodo gordiano.
La UEFA invece, secondo le parole di Platini, vuole "separare le questioni commerciali da quelle sportive" e imporre, per quanto concerne le sue manifestazioni, un rigido rapporto tra entrate e uscite, derogabile solo in casi straordinari, che la Premier rifiuta.
Da un lato questa regolamentazione protegge i club da investimenti in altri settori che potrebbero rivelarsi rischiosi assai più di quanto preventivato dal complesso di regole inglesi, dall'altro rischia anche di impedire il pieno sviluppo delle attività connesse, di fatto impoverendo i club, e bloccandone l'evoluzione: soprattutto livellando artatamente il gap competitivo creatosi tra le squadre inglesi e il resto d'Europa. Gap formatosi grazie alle migliori competenze manageriali delle squadre britanniche, non certo per gli aiuti di stato spesso piovuti altrove.
La UEFA non può intervenire su questioni di competenza prettamente dell'Unione Europea o degli stati, come l'immigrazione, la pressione fiscale, gli aiuti statali, le leggi sul falso in bilancio. La specificità dello sport è stata, come ricordato, recentemente negata dalla stessa UE per quanto concerne il 6+5 proposto da Blatter. La Premier, d'altronde, non ha intenzione di vedere azzerato, con regole troppo stringenti, il vantaggio costruito in questi anni, su basi che sono ritenute meritocratiche, e un mercato attraente per gli investitori stranieri, per poi addirittura trovarsi con pesanti svantaggi competitivi determinati dalla disarmonia delle legislazioni nazionali.
Gli investimenti, che hanno ottenuto una linea di credito sostenibile e motivata, quelli dell'Arsenal o del Manchester o, perché no, del Real, andrebbero distinti da quelli che sono debiti e non si possono chiamare in altra maniera dando un'occhiata a un decennio di bilanci in cui non si registrano evoluzioni significative tali da poter pensare a un imminente rientro, anzi a un aumento smisurato del debito stesso. E' il caso dell'Inter o del Chelsea (anche se anche il club londinese ha preso una china assai più morigerata).
Per la verità una tale distinzione appare non semplice da implementare.
Ma d'altro canto, il margine di deroga sul rigido rapporto entrate-uscite, sensata concessione allo sviluppo del business presente nella regolamentazione UEFA, si accompagna, come detto, alle differenze legislative nazionali.
La speculazione.
La legislazione UEFA ha, insomma, indubbi meriti, ma trova i suoi limiti nelle inderogabili leggi europee. La distanza con le posizioni dei club inglesi (che poi sono americani, arabi, cinesi, russi) si fonda, in ultima istanza, più che sulla separazione degli aspetti commerciali da quelli sportivi, ampiamente perfettibile e su cui si può trovare, immaginiamo, un punto d'incontro, sulla speculazione legata alla compravendita degli stessi club. In Inghilterra abbiamo visto come, per entrare nel mondo del calcio, uomini d'affari da ogni parte del pianeta ottengano linee creditizie al fine di comprare il club. La gestione della squadra è sostanzialmente condotta con criteri affaristici e improntati alla competizione sia commerciale che sportiva. L'incentivo è naturalmente a mantenere una gestione ottimale dei risultati sportivi, che aumentano il valore del club, e prospettive di crescita economica, in termini di introiti e di debiti sotto controllo. In questo modo i proprietari possono maturare una forte plusvalenza sulla cessione futura del club, che diventa così un asset da far fruttare e vendere, come qualsiasi altro.
Non considerando la questione in termini ideologici, in questo non c'è niente di male, se non la tendenza, riscontrata in alcuni casi, ad aumentare il volume di investimento in termini di entrate, ma lasciando ogni volta al prossimo proprietario il compito di ridurre le spese.
Un club per accrescere il proprio valore ed essere appetibile per la vendita deve mantenere una gestione produttiva: un carrozzone pieno di debiti non lo comprerebbe nessuno. Per intenderci: se per comprare il Manchester United la fila di investitori sarebbe lunga, per comprare l'Inter toccherebbe fare una di quelle aste al ribasso, di moda di questi tempi su internet.
La regolamentazione UEFA che impedisce, nella maggior parte di casi, il maturare di debiti per gli investimenti di lungo periodo sarebbe di grande impatto su un ambiente di affari come quello inglese, di fatto frenando la compravendita dei club stessi. Il calcio non è roba per finanzieri. Ma nemmeno per mecenati.
A la guerre?
La domanda è spontanea: si va alla guerra?
Consideriamo un'altra riforma, attiva dalla prossima stagione, in Inghilterra. Le rose saranno bloccate a 25 giocatori, di cui 8 dovranno essere "giocatori locali" sotto i 21 anni. Per "giocatore locale" si intende, come da definizione UEFA, un giovane cresciuto nel settore giovanile nazionale per 3 anni prima dei 21, non potendosi in alcun modo realizzare discriminazioni tra giocatori comunitari. Federico Macheda sarà, tra un anno, un "giocatore locale" inglese, ad esempio.
E' una riforma importante e significativa, che mira a contenere i costi delle rose. Una riforma coraggiosa, che ottempera alle vaghe direttive UEFA, in modo esemplare. La UEFA infatti impone una quota di giocatori locali in tutti i campionati europei, ma la regola viene facilmente aggirata non ponendo limiti alle rose, come fa la FIGC. In questo modo su 40 giocatori messi in rosa, 8 giovani locali si trovano facilmente.
E' una riforma che nel breve potrebbe far perdere competitività alle squadre inglesi, ma nel lungo periodo essere la base di una maggiore competitività, fondata su basi molto solide. Tutto ciò a patto che la Premier riesca a continuare ad attrarre, grazie al suo ottimo sistema educativo e alle ancora maggiori possibilità di esordire sin da subito tra i migliori, i giovani europei più forti.
Questo potrebbe essere però condizionato da un'eventuale ulteriore riforma UEFA che, come prospettato, metta un blocco totale ai trasferimenti dei giocatori sotto i 18 anni.
Certo il prossimo anno le squadre inglesi saranno costrette a tagliare le rose: questo avrà un impatto positivo sulla riduzione del monte ingaggi in generale, e si può prevedere anche che aumenteranno di conseguenza le risorse per gli ingaggi dei grandi giocatori, più propensi alla Spagna ultimamente, per ragioni fiscali.
Certo: quando si è costretti a vendere, il prezzo lo fa l'acquirente, ed è prevedibile qualche minusvalenza importante. Nel lungo periodo, però, sempre a patto che le regole sui giovani rimangano quelle odierne, i vantaggi sono molti. Bilanci più sostenibili, settori giovanili forti, e quindi basi solide per le società. Insomma il modello di Platini.
Può essere questa una mossa che va a chiudere il conflitto, attestando la buona volontà dei club inglesi nell'imboccare la strada suggerita dalla UEFA e aprendo la strada al compromesso nella regolamentazione sui bilanci? Oppure va intesa come una ricerca ancora maggiore di autonomia, dando ad intendere che le strade della Premier e quelle della Champions andranno a dividersi nel 2012?
Continueremo a seguire, come stiamo facendo, nella sezione NEWS WEEK, le novità a riguardo.
Per ora un solo fatto è certo: ci sono due proposte serie per un calcio migliore, quella di Platini e quella inglese. In Italia continuiamo a fregarcene.