BORSA E DEBITI
C’è stato un periodo in cui il presidente della Roma, Franco Sensi, amava molto parlare di “vento del Nord”, di intrighi e congiure di Palazzo che impedivano alla sua squadra di competere ad armi pari con le grandi del campionato. Una sorta di complesso di don Abbondio in cui il club giallorosso era il vaso di coccio e le squadre del Nord i vasi di ferro. Il periodo dei lamenti incontrò una breve sosta dopo la conquista del secondo scudetto “romano” (l’anno prima era andato alla Lazio), salvo poi riprendere immediatamente dopo, fortificato e veicolato dal braccio armato del presidente, il direttore sportivo Franco Baldini. Era singolare sentirlo discutere di favoritismi e compiacenze arbitrali dopo che la Roma si era aggiudicata un campionato con la benevolenza incrociata dei fischietti tutti e della Federcalcio (leggi regole cambiate in corsa). Col senno di poi, le querimonie di Baldini e di Sensi suscitano decisamente ilarità sulla scorta di ciò che accadde, tra il 2002 e il 2003, nei conti finanziari della AS Roma.
Sensi non è mai stato un campione di puntualità in fatto di limpidezza contabile o di scadenze da rispettare. Già all’epoca della cessione del Palermo (lo passò a Zamparini nell’estate del 2002), il buon Franco aveva lasciato un ottimo ricordo di sé ai siciliani, “dimenticandosi” di saldare qualche conticino in sospeso:
Il credito più piccolo è quello di un bar che aspetta da mesi 7 euro e 48 centesimi. Il più grande è quello di una agenzia di viaggi di 224 mila euro. In mezzo ce ne sono centinaia per tutte le cifre: dai 20 euro ai 200 mila euro. La lista dei creditori, che quasi quotidianamente bussano alla porta del Palermo per recuperare i soldi che avanzano dalla gestione Sensi, conta più di duecento nomi. Sì perché il presidente della Roma, insieme a tanti rimpianti per quello che era il suo progetto di società mai portato a compimento, ha lasciato anche qualcosa come quattro milioni di euro di debiti. Un buco che l' ex proprietario del Palermo si era impegnato a pagare, o quanto meno a garantire con una fideiussione, e che invece sino ad oggi è rimasto tale e che Zamparini sta cercando di ripianare. L' elenco dei creditori è svariato. C' è l' albergo che attende 140 mila euro. La foresteria del settore giovanile creditrice di oltre 60 mila euro. L' azienda che fornisce i tacchetti delle scarpe, le reti delle porte, i paletti e altro materiale da campo che vanta un credito di 8 mila euro. I medici, massaggiatori e gli altri componenti dello staff sanitario con un anno e mezzo di arretrati. Non sono nemmeno stati pagati gli animatori che hanno organizzato la festa di Natale per i bambini e che attendono di vedere corrisposti i loro 300 euro. Insomma mezza Palermo deve avere soldi da Sensi. Ma il vecchio Palermo ha debiti anche fuori città. Il caso più clamoroso è quello di Villa Stuart la clinica romana dove lo scorso anno Beppe Mascara venne operato per la frattura del malleolo. La direzione sanitaria non ha mai visto i 13 mila euro per l' intervento e lo scorso 28 ottobre, per fare operare Zauli, Zamparini si è visto costretto a pagare in anticipo. Ma è successo pure che tornando negli alberghi di Ancona e Cosenza, che avevano ospitato la squadra lo scorso anno, il Palermo abbia dovuto saldare gli extra mai pagati dalla precedente gestione. Senza contare gli oltre 400 mila euro che la Fifa ha imposto di pagare al San Gallo per Dittigen. Il motto di Sensi è sempre stato: «L' importante non è pagare, ma fare sapere che puoi pagare». Lo sanno bene i giocatori del Palermo che, senza stipendio per sei mesi, lo scorso anno hanno firmato le ricevute liberatorie soltanto a fine luglio. Hanno visto lo stipendio, ma non il premio salvezza che si aggira sui 65 mila euro per un totale di 900 mila euro. La settimana scorsa il pretore di Borgo Valsugana ha condannato il Palermo al pagamento di una multa di 2.500 euro più le spese giudiziarie. I soldi che il Palermo deve alla società del Primiero San Martino per l' utilizzo del campo di allenamento per il ritiro della scorsa stagione. I dirigenti trentini hanno fatto tre tentativi senza esito prima di ricorrere alla giustizia per ottenere quanto spettava loro. Di ingiunzioni di pagamento è pieno anche il tribunale di Palermo, ma molti di più sono i creditori che ancora non hanno intrapreso le vie legali e sperano in Zamparini. Ma Zamparini non può pagare. Nell' accordo di questa estate Sensi si impegnava a vendere la società rosanero per 15 milioni di euro pagabili in tre rate da cinque, ma senza un solo debito. Il debito sarebbe stato saldato attraverso un versamento da parte della delegataria della società Cristina Mazzoleni. Paradossalmente se Zamparini intervenisse potrebbe poi essere citato da Sensi perché il pagamento deve avvenire alla presenza della Mazzoleni. Tutto sarebbe doveva essere saldato entro agosto, ma di quei soldi non si è vista nemmeno l' ombra. Si aspettava il consiglio di amministrazione della Roma del 31 ottobre, ma niente. Poi Sensi è stato poco bene, poi è andato a Madrid con la squadra, quindi ha avuto il caso Cassano. Insomma, come ai tempi in cui gestiva a società rosanero, non ha trovato un minuto di tempo per occuparsi del Palermo. Adesso a Trigoria appena vedono sul display dei telefoni il prefisso 091 di Palermo nemmeno rispondono più. (Repubblica, 9 novembre 2002)
Anche nella Capitale, Sensi faceva attendere il versamento mensile ai suoi tesserati: a giugno 2003 la Roma contava un debito verso tesserati di 44,13 milioni di euro che fu saldato, ma non completamente, nel febbraio del 2004. Su Repubblica del 2 novembre 2002 si racconta un gustoso aneddoto:
La Roma sugli ingaggi non onorati e le esclusioni dalla rosa non giustificate ha collezionato più contenziosi di Vittorio Sgarbi, tramutati in puntuali sconfitte al Collegio Arbitrale di Milano. L’ultimo problema si chiama Saliou Lassissi, difensore della Costa d’Avorio: è fermo da 14 mesi, il presidente Franco Sensi da luglio non gli riconosce l’ingaggio (312.000 euro risparmiati, fin qui).
Ma le abilità del presidente romanista non si palesano solo nello sfuggire ai creditori ma anche nello scansare tout court le difficoltà finanziarie che mano mano gli si presentano. Dopo aver commentato con sarcasmo, nel maggio 1998, la quotazione in Borsa dei cugini biancazzurri (“La Lazio entra in borsa perché non ha più una lira”), Sensi si fa beffe di ogni coerenza portando la sua Roma a Piazza Affari, due anni esatti dopo. Lieto evento che il Nostro, colto da improvviso entusiasmo, saluta così: “Questo è un grande successo della società che entra in Borsa con un massiccio patrimonio finanziario che nessun’altra società può vantare. […] Ora la Roma è libera, chi vuole se la compra. E’solo un problema di quantum” (Ansa, 23 maggio 2000). Il titolo, collocato a 5,5 euro dopo un mese perde già il 14%. E’ lo stesso Sensi a vendere (e realizzare). E poco importa se la Consob ha chiuso un occhio (forse due) accordando la quotazione della Roma, nonostante le difficoltà economiche.
Ma queste sono solo guasconate, memorie da raccontare con compiacimento ai nipoti, se paragonate a quello che accadde nel biennio 2001-2003, con la Roma alle prese con bilanci da bancarotta e un’impossibile iscrizione al campionato di serie A.
CAMPIONI DI PLUSVALENZA
La Roma di Sensi è stata una delle grande protagoniste di quel sistema detto delle plusvalenze, che ha caratterizzato la storia delle società di calcio all’alba del nuovo millennio. Il terzo scudetto giallorosso, vinto (si fa per dire) nel 2001, è costato moltissimo alle casse romaniste, da lì in avanti sempre più tristemente vuote.
Nell’estate 2001 la Roma avvia una proficua serie di trattative con il Parma dell’allora immacolato Tanzi, che portano a benefici contabili inimmaginabili. Ecco un esempio: i calciatori Gurenko, Mangone e Poggi passano ai ducali per la stratosferica cifra di 50 milioni di euro. Non male per due difensori e un bomber di scorta che in Capitale non hanno quasi mai giocato. Ridicola poi la contropartita concessa al Parma: l’infortunato Lassissi, al quale Sensi non pagava lo stipendio, e l’anziano Diego Fuser. 50 milioni in totale anche per loro. Do ut des avrebbero detto a Roma, duemila anni fa. Ma il capolavoro arriva l’estate seguente con maquillage contabili di inarrivabile fantasia: nel bilancio chiuso al 30 giugno 2002 l’AS Roma iscrive 95,3 milioni di plusvalenze da cessione calciatori. 180 miliardi di vecchie lire. Per realizzare tale somma non vengono sacrificati campioni del calibro di Totti e Montella ma una ventina di sconosciuti di belle speranze, presi direttamente dalle giovanili. Eccone i nomi:
Marco Amelia, Cesare Bovo, Franco Brienza, Simone Casavola, Daniele Cennicola, Daniele De Vezze, Giuseppe Di Masi, Simone Farina, Alberto Fontana, Gianmarco Frezza, Armando Guastella, Daniele Martinetti, Giordano Meloni, Matteo Napoli, Simone Paoletti, Manuel Parla, Marco Quadrini, Cristian Ranalli, Fabio Tinazzi, Alfredo Vitolo.
Una lista strepitosa nella quale solo tre giocatori (Amelia, Bovo, Brienza) si sono poi fatti una carriera nella massima serie. Un salto mortale in piena regola che verrà attutito un anno dopo dal salvifico materasso del Decreto Spalmaperdite.
Il bilancio chiuso al giugno 2003 è terrificante: perdite e debiti col Fisco segnano un rosso spaventoso che solo qualche plusvalenza fittizia riesce ad attenuare. Ci sono 47 milioni e 417 mila euro da ricapitalizzare. A metà luglio arrivano le liberatorie dei calciatori per gli stipendi non pagati e Capitalia accorda una fidejussione di 30 milioni. Altri 10 milioni vengono sottoscritti da alcuni forti azionisti. Rimangono 7 milioni 417 mila euro. Sensi promette un aumento di capitale ma la Covisoc (la Commissione di Vigilanza delle Società di Calcio), memore delle morosità del presidente, non accetta e pretende una garanzia, che la Roma però non trova. Si arriva così al 28 luglio, ultimo giorno utile per l’iscrizione al campionato: 26 squadre, dalla A alla C2, rischiano di non rientrare nei parametri richiesti dalla Covisoc. Al quarto piano di via Allegri, ufficio capitolino della Covisoc il consulente finanziario della Roma, Cristina Mazzoleni, accompagnata dal commercialista di Sensi, Silvio Rotunno e da un dirigente di Capitalia, sono seduti al tavolo delle iscrizioni. Dall’altra parte i segretari della Commissione di Vigilanza, Valeria Anselmi, Renato Spiridigliozzi e Gabriele Turchetti. E’ quest’ultimo che comanda le operazioni, con alle spalle quindici anni di onorato servizio, in cui ne ha viste di tutti i colori. Il colore della Roma, e non solo di maglia, è il rosso: mancano ancora quei benedetti 7,5 milioni. Nella stessa situazione anche Napoli, Spal e Cosenza, con passivi che ondeggiano tra i 5 e il 15 milioni.
La discussione è animata e i nervi sono tesi perché alle cinque di pomeriggio si deve chiudere: la Roma rischia di far la fine della Fiorentina. Fallimento. C2, se va bene C1. I dirigenti giallorossi pensano alla Sanremo spa (società che tornerà a far parlare di sé per la fidejussione di Facchetti e le garanzie irregolari concesse all’Ancona di Pieroni) ma la risposta è la più ovvia: com’è possibile ottenere una fidejussione in sei ore? La Mazzoleni, disperata, chiama al telefono Sensi, il quale risponde di non avere un soldo disponibile subito. Nel salone di via Allegri scende un silenzio di ghiaccio che prefigura un’umiliante destino per il club capitolino, ma a ridare calore (e speranza) a tutti ci pensa Turchetti che, oltre i suoi doveri e le sue funzioni, propone una via d’uscita: G. D. V., un giovane commercialista di Napoli, esperto in situazioni di questo tipo, geniale e intraprendente al punto da esser stato premiato per un libro sui bilanci delle società sportive. Interpellato col groppo in gola dal drappello dei romanisti, D. V. rimanda alla Rigone Assicurazioni di Ancona. Da qui, la comitiva viene rinviata alla Sbc, società “minima” di Civitanova Marche con mezzo milione di capitale sociale, inibita l’anno prima dal rilasciare garanzie. Ma che importa, bisogna fare in fretta.
A curare la pratica i broker Paolo Landi e Luca Rigone che a tempo di record portano in Federcalcio tutti i documenti. Le fidejussioni arrivano prestampate e presiglate, sotto il timbro “amministratore delegato” c’è una firma che pare dica “Cynthia Ruia”. Un consulente romanista controfirma, la Covisoc dice ok, tutto a posto, e la Roma è iscritta. La quiete dopo la tempesta. Ma due giorni dopo la tempesta ritorna, ancora più furiosa: la fidejussione non è esattamente un capolavoro di precisione accademica, è falsa:
Tutto ruota intorno alla Sbc […] che, secondo i documenti approdati in Federcalcio negli ultimi giorni di luglio, avrebbe dato garanzie a quattro squadre (Napoli, Spal, Roma, Cosenza) attraverso fideiussioni per trenta milioni di euro. La Sbc di Franco Jommi, amministratore unico, in realtà non ha firmato nulla, nessuna fideiussione. Innanzitutto non può. Dallo scorso febbraio la Banca d’Italia gli ha revocato il potere di “garanzia”, limitando la sua attività di intermediazione sui cambi. E poi la firma su quelle fideiussioni estive è di una signora, Cynthia Ruia, che il 2 maggio 2003 era uscita dalla società. Ed è una firma senza autentica notarile, forse è falsa.
Inoltre sembra che il documento “farlocco” non sia stato nemmeno consegnato in tempo. E’ il caos più completo: nessuno sa niente, tutti scaricano il barile, nessuno ha visto niente e, se c’erano, dormivano. Jommi, amministratore delegato della Sbc, nega di aver avallato quelle fidejussioni, Landi dichiara di aver fatto solo il messo in Federcalcio, consegnando le carte già pronte, Rigone invece scarica tutto su Landi, reo a suo dire di aver gestito tutta la pratica. Un groviglio che mette in moto i carabinieri, che organizzano gli interrogatori.
Comincia il valzer delle dichiarazioni: Sensi dice che la Sbc gliel’ha consigliata proprio la Covisoc, contro la quale punta il dito anche Franco Baldini: secondo il direttore sportivo giallorosso la Roma aveva stabilito di accollare 17,5 milioni di debito alla Roma 2000 srl, società controllante della AS Roma, di cui Sensi è amministratore unico. I revisori però avevano rifiutato, e a ragione: la Roma 2000 srl ha chiuso il bilancio 2003 con 601,07 milioni di esposizione debitoria e con 150 milioni da rimborsare a Capitalia. Niente male per far da garante a un altro debito.
Le prime bordate arrivano da Turchetti, il segretario zelante, torchiato per quasi cinque ore. Egli afferma di aver solo consigliato di rivolgersi a D. V. e non direttamente alla Sbc. Gli chiedono come ha fatto la Covisoc a far passare una fidejussione emessa da una società inidonea e lui risponde che le visure camerali e i rapporti del Cerved gli giungono con mesi di ritardo, quindi non avrebbe mai potuto conoscere la situazione della Sbc. D’altra parte, “in sette ore e con ventisei società fuori dallo stanzone non si poteva fare di più” (tutti i corsivi citati da qui in avanti provengono da edizioni di Repubblica dell'agosto 2003).
Mentre la Federcalcio (leggi Carraro) convoca una riunione straordinaria per discutere il da farsi, Turchetti rincara la dose, andando direttamente al punto: “[i dirigenti romanisti] sono dei venditori di macchine usate, e sono incapaci. Si sono presentati all’ultimo giorno, di tarda mattina, con un piano di garanzie studiato per 72 ore insieme a Capitalia. Non stava in piedi. C’erano trenta milioni di euro della banca di Geronzi, ma per i restanti 17,5 milioni hanno sbagliato tutto. Volevano accollarsi una parte di debito da 22 milioni che hanno con la Banca di Roma, ma secondo i loro calcoli sarebbe bastato versarne dieci e non tutti e diciassette. Calcoli sbagliati, fatti sulla situazione debitoria prima del 31 marzo. Le carte Covisoc, invece, parlano di fotografia finanziaria al 31 marzo. Lo feci notare e il funzionario Capitalia, l’avvocato Marcello Villa, si mostrò sconsolato: “Mi avete fatto lavorare tre giorni per niente” disse al commercialista Silvio Rotunno.” Rotunno aveva provato a ribattere e a chiedere ausilio direttamente al professor Pescatore, presidente della Covisoc, il quale aveva scrollato le spalle: “Dottore, sono tifoso da 30 anni della Roma ma se voi mi presentate queste carte finite direttamente tra i dilettanti”.
Turchetti dice di aver consigliato i romanisti di rivolgersi anche all’Ina-Assitalia, che è stata sponsor della squadra ma che anche loro avevano risposto picche, per questioni di tempo. Alla fine sbotta: “Io non ho estorto nulla, ho solo aiutato i consulenti della Roma, che neppure conoscevano il regolamento”.
La storia si complica quando Sensi si proclama parte lesa della questione: era in buona fede, non è colpa sua se gli hanno portato dei documenti falsi. Certo, le carte mica le ha redatte lui, ma c’è da chiedersi come abbiano potuto credere, gli uomini di Sensi, ad una fidejussione precompilata e pronta in cinque ore. La spiegazione migliore la fornisce ancora Turchetti: la Roma (e il Napoli) dovevano essere iscritte per forza “altrimenti, è la battuta che gira in Figc, avremmo avuto i blindati per le strade”. Problemi di ordine pubblico, insomma, non come con la Fiorentina, di cui Turchetti è tifoso e che lui stesso ha escluso dalla serie A l’anno prima. Non se ne viene proprio fuori e la Federcalcio non trova di meglio che concedere una deroga: la Roma ha tempo fino al 30 agosto per presentare una vera fidejussione.
Nel frattempo l’Atalanta, retrocessa al termine della stagione appena conclusa, è furiosa. Il presidente Ruggeri si proclama amico di Sensi e della Roma ma non può fare a meno di constatare che “in passato società in identica posizione sono state cancellate dai rispettivi campionati perché la legge sportiva era stata applicata e fatta rispettare”. I bergamaschi chiedono l’intervento dell’ufficio indagini della Federcalcio: falsa o no la garanzia è stata presentata comunque in ritardo. Ma è una pia illusione: com’è possibile che la Figc indaghi su se stessa? Che indaghi il Coni allora, suggerisce Ruggeri, ma Petrucci nicchia, preferendo incassare le minacce di ricorso al Tar del presidente atalantino.
Il 28 agosto, la Roma comunica di aver ottenuto una fidejussione di 7,5 milioni ex cathedra Capitalia, ma il 30 mattina della garanzia ancora non c’è traccia. L’Ajax, che ha appena venduto ai giallorossi il difensore romeno Chivu (15 milioni), minaccia di riprenderselo perché tutto è bloccato finché la Roma non è iscritta al campionato. Capitalia fa sapere che il documento sta per arrivare, ma il tempo stringe perché nel pomeriggio si gioca Reggina-Sampdoria, l’anticipo della prima giornata. Il giorno dopo la Roma è impegnata a Udine. Le ore passano veloci e gli uffici della Federcalcio fanno gli straordinari, restando aperti fino a sera quando, finalmente, la fidejussione arriva.
Il 2 settembre Chivu passa alla Roma ma in prestito, per 4 mesi. Gli olandesi non sono stupidi: Sensi versa all’Ajax un acconto di 3 milioni ma entro fine mese deve presentare una garanzia (un’altra) per i restanti 12 milioni. E a mettere tutti in riga interviene la Abn-Amro, banca di Amsterdam che ha il 9% di Capitalia.
Tutto sistemato anche se, a maggio 2004, si scopre che la fidejussione di Capitalia (quella del 30 agosto) non è stata pagata, al punto che una rata di 1,5 milioni è stata saldata da un versamento diretto dello sponsor Mazda. La Procura di Roma intanto ha aperto un’inchiesta e Luca Rigone, il broker di Ancona che ha seguito la pratica con Paolo Landi, accusa Spiridigliozzi e Turchetti di corruzione: quest’ultimo avrebbe intascato circa 50 milioni per chiudere un occhio sui conti delle 3 squadre. Tre, perché il Cosenza è stato fatto fallire. L’avvocato di Turchetti risponde che si tratta di menzogne ma il problema non si pone dato che il suo assistito muore, lasciando irrisolto l’enigma.
Il 29 ottobre 2004 vengono iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di falso il responsabile finanziario della Roma Cristina Mazzoleni, il commercialista Silvio Rotunno, gli assicuratori Luca Rigone e Paolo Landi, nonché il mediatore G. D. V. Quest’ultimo è irrintracciabile, non risponde al telefono e sembra sparito nel nulla. Sensi continua a dichiararsi parte lesa e, stando sul tecnico, ha pure ragione: ha pagato una commissione di 300.000 euro e ha ricevuto in cambio una fidejussione sulla carta del formaggio. Ma come abbiano fatto i suoi dirigenti, e i segretari Covisoc, a credere a quel fogliaccio rimane un mistero. Il 25 febbraio 2005 le squadre di calcio (Napoli, Cosenza e Spal comprese) vengono dichiarate parti lese e tutto passa in cavalleria. Tutto chiuso, tutto sistemato. Peccato che un anno prima il Cosenza è stato spedito tra i dilettanti e la Virtus Bologna, gloriosa società di basket, sia stata relegata in A2, rea anch’essa di essersi avvalsa dei servigi della famigerata Sbc. Per la Roma, invece, la serie A. In attesa della prossima puntata.
Lo portano via, quando Cassano fa il quarto gol. Sì, Gazzoni, il padrone del Bologna, se lo porta via la Digos, quando la curva dello stadio diventa acida, rabbiosa, insolente. Tanto da trasformare la protesta in una contestazione aggressiva che ha come sfondo le poltronissime della tribuna vip. Gazzoni, un' ora dopo il minuto di silenzio per le vittime italiane in Iraq, deve andarsene scortato. Dal Dall' Ara che, in fondo, è anche suo, mentre i cinquanta ultrà che hanno invaso la tribuna d' onore lo insultano: vogliono che tiri fuori i soldi, gli urlano che è senza cuore, dopo aver mostrato lo striscione «Compracela, Gazzoni». Riferito alla partita, naturalmente. La Roma l' ha già vinta, intanto. Anche se Gazzoni, all' inizio dell' intervallo, subito prima della contestazione l' aveva attaccata meglio dei suoi in campo: «Se noi non pagassimo l' Irpef come fanno loro, avremmo quattro giocatori in più. E anche buoni. Quattordici milioni di euro di imposte non pagate sono tanti: poi loro sono bravi, sono fortissimi, ma anche noi avremmo potuto esserlo di più stando alle loro regole». Cioè non rispettandole.
L' azionista di maggioranza del Bologna ha visto la frana del 3-0, dopo appena 45 minuti: non avrebbe più voglia di vedere altro, forse. E invece poco dopo quelle frasi, verso la fine dell' intervallo, arriva il resto. Tre ultrà arrivano a pochi metri da lui, prima che intervenga la polizia, evitando che l' invasione - visto il clima - diventi aggressione. Nel respingere la carica, c' è qualche manganellata, ma in 5 minuti, appena ripresa la partita e permesso anche a Cassano di trovare il gol, tutto si chiude. Per sicurezza, Gazzoni viene fatto uscire, con la scorta. E' undici anni che è nel calcio, ma tra collasso economico del sistema e tifosi sempre più contro (a giugno fu aggredito dopo una trasmissione tv, perché sembrava che Signori non restasse), non ne può più. «Prima non era così, ora la situazione è molto critica», aveva detto. Parlava dei bilanci che il Bologna ha in regola:“Lazio e Roma non pagano, si sa”. (Repubblica, 24 novembre 2003)
La fine della storia, per fortuna, vede il presidente Sensi recuperare un po’ di dignità. A novembre 2003 la Roma è indebitata come e più di prima con un passivo di 239 milioni di euro. Sensi avrebbe potuto andarsene, lasciare la società in mano ai curatori fallimentari, invece ha scelto di starsene in poltrona e di salvare la sua squadra, sacrificando una bella fetta del suo patrimonio. Dopo il fallimento delle trattative di vendita con i russi della Nafta Mosca, Sensi decide ripianare completamente il debito di tasca sua: rinuncia a crediti con la Banca d’Italia, salda 47,5 milioni delle vecchie fidejussioni e vende immobili e quote azionarie delle sue società come la Interpetroli e gli Aeroporti di Roma. Il governo dà una mano, consentendo di pagare in tre rate (giugno, settembre, novembre) i debiti previdenziali e così tutto si risolve. Poco importa se per sistemare gli ultimi 20 milioni ci abbia pensato il condono Tremonti. Poco importa se, in tutto questo periodo, la Legge Spalmadebiti sia intervenuta, se non a risolvere, quantomeno a rinviare i problemi. La Roma è salva, si va avanti.