Dall’autobiografia di Omar Sivori: “Cara Juventus ….”, scritta nel 1965 in collaborazione con Gian Paolo Ormezzano:
“Quando, nel giugno del 1957, giunsi in aereo alla Malpensa, fui subito caricato su un'automobile che si arrestò soltanto al casello di Novara, sull'autostrada tra Milano e Torino. Lì mi dissero di salire su un'altra macchina, che attendeva. Al volante c'era Umberto Agnelli. "Sono due anni che ti aspettiamo" mi disse lui, sorridendo. "E io aspetto la Juventus da cinque anni", gli dissi, in uno spagnolo assai facile da capire [...] Sentimentalmente, io ero già della Juventus molto prima di firmare il cartellino. La favola bianconera narratami da Renato Cesarini mi aveva stregato. Quando si erano mossi gli emissari bianconeri, capeggiati da un caro amico, ora scomparso, Carletto Levi, tutto mi era sembrato perfettamente logico, naturale. Io "dovevo" finire alla Juventus. Tre anni prima, Di Stefano era andato al Real Madrid per due milioni di pesos. All'inizio di quell'estate 1957, l'Inter aveva ottenuto Angelillo e il Bologna aveva ottenuto Maschio: per ogni giocatore erano stati pagati cinque milioni di pesos. L'Inter aveva anche cercato di ottenere dal River il mio cartellino. Si era occupato delle trattative un certo Latronico. Le sue offerte erano salite da cinque a sei e poi a sette milioni di pesos, e infine si erano avvicinate alla cifra "folle" che il River, bisognoso di molti soldi per rifare le tribune del suo stadio principale, aveva sparato: dieci milioni di pesos, all'incirca centosessanta milioni di lire, un record per quel tempo. Le manovre dell'Inter si erano bloccate quando, per un intralcio di natura burocratica, stentavo a reperire, presso il Municipio di Cavi di Lavagna, col fragile sistema delle richieste epistolari, i documenti che comprovassero la mia situazione di oriundo. Non appena ritrovai i documenti, trovai anche sulla mia strada la Juventus. Fu lei a sborsare quei dieci milioni ed a me toccò un buonissimo ingaggio”.
Inutile dire che oggi all’Inter ben hanno imparato a risolvere certe pratiche … burocratiche.
Enrique Omar Sivori era nato a San Nicolas de los Arroyos (Argentina) il 2 ottobre 1935 da una famiglia di oriundi. Prima di sbarcare in Italia era già stato campione d’Argentina per un triennio (1955, 1956 e 1957) e con la Seleccion biancoceleste aveva vinto il campionato sudamericano disputato in Perù, assieme a Humberto Maschio e Valentin Angelillo; i loro tifosi li avevano soprannominati "el trio de los angeles con la cara suicia": l’appellativo ricalcava il titolo di un film del 1938; sembra che così li abbia chiamati per la prima volta un massaggiatore, vedendoli seduti su una panca, stanchi, sudati e infangati al termine di una partita nella quale si erano distinti per la loro abilità e leggerezza nel gioco.
Ma per Sivori in particolare gli appellativi si sprecano:
lui è "el cabezon", il capoccione, per la folta capigliatura che spiccava sul corpo minuto;
lui è "el gran zurdo", il grande mancino, per l’eccezionale magico sinistro di cui è dotato;
lui è "cè", che nel castigliano del sudamerica significa "io", perché di smisurato, oltre al sinistro, Omar ha anche l’ego. Comincia ogni discorso con "cé", io.
Omar entra così nella Juventus di Charles e Boniperti, una squadra destinata a diventare un mito. Trova subito nel gigante John il suo ideale complemento, mentre non legherà mai con il secondo.
Charles, grande e grosso, esemplare per correttezza e lealtà, si completa alla perfezione con il ragazzo un po’ gracile ma geniale e diabolicamente perfido venuto dall’Argentina. John apre la via in cui si infila, a stinchi nudi, Sivori, per realizzare uno dei suoi innumerevoli, mai banali, goal.
Con Boniperti invece son subito scintille: costui è abituato a comandare, a far la prima donna (tanto da guadagnarsi il soprannome ‘Marisa’), ma Omar non è per niente portato all’obbedienza.
Sivori diventa subito l’idolo dei tifosi bianconeri e il calciatore preferito da Gianni Agnelli che, per godersi i suoi dribbling tra nugoli di avversari e i suoi tunnel a ripetizione, tralascia anche più di un appuntamento con il jet set; la gelosia di Boniperti monta sempre più, accelerandone probabilmente i tempi del ritiro…….
E il 1961 è l’anno del Pallone d’oro per Sivori e dell’addio al calcio giocato per il suo rivale.
Il gioco del Cabezon ha tutto: c’è il genio, c’è la fantasia, c’è l’astuzia, c’è la gioia, c’è il dominio, c’è l’istinto, c’è l’imprevedibilità, c’è l’irrisione, c’è lo spettacolo. Il pallone è il naturale prolungamento del suo piede sinistro, e col pallone fa quello che vuole.
Il sinistro, già, il sinistro. Si racconta che, al momento della presentazione, Omar palleggiò davanti all’Avvocato, che gli disse che, sì, era bravo, ma non sapeva usare il piede destro; per tutta risposta Sivori fece tre-quattro giri di campo palleggiando col sinistro senza far cadere il pallone; poi, con la sua istintiva improntitudine, disse all’Avvocato: “Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?”
Le sue doti tecniche sono decisamente fuori dal comune, il dribbling è ubriacante, il palleggio sopraffino; gioca con i calzettoni abbassati ("alla cacaiola" li definì Giuanin Brera) e senza parastinchi, quasi a sfidare gli avversari, che poi superava beffardamente con i suoi tunnel.
I suoi detrattori, non potendo criticarlo sul piano della tecnica e del gioco, si attaccano al suo carattere non facile e alla sua indole godereccia.
In effetti Omar ha un caratterino irriverente, provocatore, vendicativo e non sa proprio tenere a freno la lingua; difficile risulta il suo rapporto con gli arbitri, in particolare con il dispotico Concetto Lo Bello, e in 12 anni di permanenza in Italia accumula ben 33 giornate di squalifica.
Per di più in campo non rispetta strategie, non obbedisce a nessuno, agisce sempre di testa sua, vive la gara in prima persona, tiene il pallone come e quanto vuole; ma le sue partite sono spesso memorabili.
Inoltre Omar non ama allenarsi, lo fa svogliatamente, conduce una vita tutt’altro che monastica, mangia quel che gli pare e piace, gioca a carte fin quando decide lui, fuma, beve whisky, si alza tardi e tardi si presenta agli allenamenti; però, sul campo, in condizioni fisiche anche approssimative, fa la differenza, con i suoi gol rubati alle difese, con quella tecnica nel trattamento del pallone e i movimenti zigzaganti che irridono il gioco di forza dei difensori avversari.
Come può un giocatore del genere adattarsi al calcio atletico e salutista di Heriberto Herrera, il paraguagio ‘profeta del movimiento’, chiamato nel 1964 per ridare ordine e disciplina alla Juve, che ormai vive al ritmo di Sivori?
Il calcio di Heriberto, lineare e noioso, sembra fatto apposta per esaltare anche le doti di chi non sa giocare ed è l’antitesi perfetta del gioco ricco di fantasia di Sivori. L’incompatibilità di carattere tra i due ben presto esplode: il ginnasiarca non tollera ritardi e svogliatezze e lo scontro tocca il suo culmine quando Heriberto gli ricorda ripetutamente che è un calciatore come gli altri, ‘come Coramini’. E questo per Sivori è troppo, è intollerabile.
Vince Heriberto e Omar viene ceduto al Napoli ma credo che l’Avvocato abbia vissuto tutto ciò con dispiacere e forse con rabbia; non perdonerà mai l’inflessibile sergente di ferro paraguaiano per averlo praticamente costretto a mandar via un giocatore che tanto amava. Lo scudetto vinto dalla Juve nel 1966-67, all’ultima giornata, ai danni dell’Inter, non esalta più di tanto Agnelli, che poco amava quel tipo di gioco, e non lo nascondeva.
Anche sotto il Vesuvio Omar dà spettacolo, assieme ad Altafini, altro esule di lusso. Ma l’amore per la Juve in questo momento diventa sete di vendetta nei confronti del ‘nemico Heriberto’; la prima volta di Napoli-Juve, Sivori, con un’orgogliosa prodezza balistica del suo sinistro, coglie in pieno viso il suo ex tecnico, riempiendolo di fango; e si scatena una rissa.
E sarà un’altra rissa, sempre in un Napoli-Juve, a mettere fine alla permanenza del Cabezon in Italia: Heriberto gli mette alle costole il rapido Erminio Favalli che, subito un fallo da Sivori, dà vita ad una sceneggiata che induce l’arbitro Pieroni a espellere il nostro eroe, che non ci sta: e parte la rissa, con botte da orbi tra Panzanato e Salvadore.
Squalificato per sei turni, Omar torna in Argentina e, a 33 anni, appende le scarpe al chiodo.
Ma il suo legame con la Juve non può tramontare e sarà, dal 1994, l’osservatore della società bianconera per il Sud America.
E’ stato anche commentatore per la Rai ma la sua indole poco diplomatica, che lo porta a tranciare giudizi netti e severi, mal si accorda con la prudenza richiesta dalla Tv di Stato.
Muore il 18 febbraio 2005, a soli 69 anni, nella natìa San Nicolas, per un tumore al pancreas.
Perfetta la definizione che di lui diede l’Avvocato: “E’ più di un fuoriclasse: per chi ama il calcio Sivori è un vizio”.
Peccato che gli attuali proprietari della Juventus non ne abbiano, di QUESTI vizi.
Inutile dire che oggi all’Inter ben hanno imparato a risolvere certe pratiche … burocratiche.
Enrique Omar Sivori era nato a San Nicolas de los Arroyos (Argentina) il 2 ottobre 1935 da una famiglia di oriundi. Prima di sbarcare in Italia era già stato campione d’Argentina per un triennio (1955, 1956 e 1957) e con la Seleccion biancoceleste aveva vinto il campionato sudamericano disputato in Perù, assieme a Humberto Maschio e Valentin Angelillo; i loro tifosi li avevano soprannominati "el trio de los angeles con la cara suicia": l’appellativo ricalcava il titolo di un film del 1938; sembra che così li abbia chiamati per la prima volta un massaggiatore, vedendoli seduti su una panca, stanchi, sudati e infangati al termine di una partita nella quale si erano distinti per la loro abilità e leggerezza nel gioco.
Ma per Sivori in particolare gli appellativi si sprecano:
lui è "el cabezon", il capoccione, per la folta capigliatura che spiccava sul corpo minuto;
lui è "el gran zurdo", il grande mancino, per l’eccezionale magico sinistro di cui è dotato;
lui è "cè", che nel castigliano del sudamerica significa "io", perché di smisurato, oltre al sinistro, Omar ha anche l’ego. Comincia ogni discorso con "cé", io.
Omar entra così nella Juventus di Charles e Boniperti, una squadra destinata a diventare un mito. Trova subito nel gigante John il suo ideale complemento, mentre non legherà mai con il secondo.
Charles, grande e grosso, esemplare per correttezza e lealtà, si completa alla perfezione con il ragazzo un po’ gracile ma geniale e diabolicamente perfido venuto dall’Argentina. John apre la via in cui si infila, a stinchi nudi, Sivori, per realizzare uno dei suoi innumerevoli, mai banali, goal.
Con Boniperti invece son subito scintille: costui è abituato a comandare, a far la prima donna (tanto da guadagnarsi il soprannome ‘Marisa’), ma Omar non è per niente portato all’obbedienza.
Sivori diventa subito l’idolo dei tifosi bianconeri e il calciatore preferito da Gianni Agnelli che, per godersi i suoi dribbling tra nugoli di avversari e i suoi tunnel a ripetizione, tralascia anche più di un appuntamento con il jet set; la gelosia di Boniperti monta sempre più, accelerandone probabilmente i tempi del ritiro…….
E il 1961 è l’anno del Pallone d’oro per Sivori e dell’addio al calcio giocato per il suo rivale.
Il gioco del Cabezon ha tutto: c’è il genio, c’è la fantasia, c’è l’astuzia, c’è la gioia, c’è il dominio, c’è l’istinto, c’è l’imprevedibilità, c’è l’irrisione, c’è lo spettacolo. Il pallone è il naturale prolungamento del suo piede sinistro, e col pallone fa quello che vuole.
Il sinistro, già, il sinistro. Si racconta che, al momento della presentazione, Omar palleggiò davanti all’Avvocato, che gli disse che, sì, era bravo, ma non sapeva usare il piede destro; per tutta risposta Sivori fece tre-quattro giri di campo palleggiando col sinistro senza far cadere il pallone; poi, con la sua istintiva improntitudine, disse all’Avvocato: “Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?”
Le sue doti tecniche sono decisamente fuori dal comune, il dribbling è ubriacante, il palleggio sopraffino; gioca con i calzettoni abbassati ("alla cacaiola" li definì Giuanin Brera) e senza parastinchi, quasi a sfidare gli avversari, che poi superava beffardamente con i suoi tunnel.
I suoi detrattori, non potendo criticarlo sul piano della tecnica e del gioco, si attaccano al suo carattere non facile e alla sua indole godereccia.
In effetti Omar ha un caratterino irriverente, provocatore, vendicativo e non sa proprio tenere a freno la lingua; difficile risulta il suo rapporto con gli arbitri, in particolare con il dispotico Concetto Lo Bello, e in 12 anni di permanenza in Italia accumula ben 33 giornate di squalifica.
Per di più in campo non rispetta strategie, non obbedisce a nessuno, agisce sempre di testa sua, vive la gara in prima persona, tiene il pallone come e quanto vuole; ma le sue partite sono spesso memorabili.
Inoltre Omar non ama allenarsi, lo fa svogliatamente, conduce una vita tutt’altro che monastica, mangia quel che gli pare e piace, gioca a carte fin quando decide lui, fuma, beve whisky, si alza tardi e tardi si presenta agli allenamenti; però, sul campo, in condizioni fisiche anche approssimative, fa la differenza, con i suoi gol rubati alle difese, con quella tecnica nel trattamento del pallone e i movimenti zigzaganti che irridono il gioco di forza dei difensori avversari.
Come può un giocatore del genere adattarsi al calcio atletico e salutista di Heriberto Herrera, il paraguagio ‘profeta del movimiento’, chiamato nel 1964 per ridare ordine e disciplina alla Juve, che ormai vive al ritmo di Sivori?
Il calcio di Heriberto, lineare e noioso, sembra fatto apposta per esaltare anche le doti di chi non sa giocare ed è l’antitesi perfetta del gioco ricco di fantasia di Sivori. L’incompatibilità di carattere tra i due ben presto esplode: il ginnasiarca non tollera ritardi e svogliatezze e lo scontro tocca il suo culmine quando Heriberto gli ricorda ripetutamente che è un calciatore come gli altri, ‘come Coramini’. E questo per Sivori è troppo, è intollerabile.
Vince Heriberto e Omar viene ceduto al Napoli ma credo che l’Avvocato abbia vissuto tutto ciò con dispiacere e forse con rabbia; non perdonerà mai l’inflessibile sergente di ferro paraguaiano per averlo praticamente costretto a mandar via un giocatore che tanto amava. Lo scudetto vinto dalla Juve nel 1966-67, all’ultima giornata, ai danni dell’Inter, non esalta più di tanto Agnelli, che poco amava quel tipo di gioco, e non lo nascondeva.
Anche sotto il Vesuvio Omar dà spettacolo, assieme ad Altafini, altro esule di lusso. Ma l’amore per la Juve in questo momento diventa sete di vendetta nei confronti del ‘nemico Heriberto’; la prima volta di Napoli-Juve, Sivori, con un’orgogliosa prodezza balistica del suo sinistro, coglie in pieno viso il suo ex tecnico, riempiendolo di fango; e si scatena una rissa.
E sarà un’altra rissa, sempre in un Napoli-Juve, a mettere fine alla permanenza del Cabezon in Italia: Heriberto gli mette alle costole il rapido Erminio Favalli che, subito un fallo da Sivori, dà vita ad una sceneggiata che induce l’arbitro Pieroni a espellere il nostro eroe, che non ci sta: e parte la rissa, con botte da orbi tra Panzanato e Salvadore.
Squalificato per sei turni, Omar torna in Argentina e, a 33 anni, appende le scarpe al chiodo.
Ma il suo legame con la Juve non può tramontare e sarà, dal 1994, l’osservatore della società bianconera per il Sud America.
E’ stato anche commentatore per la Rai ma la sua indole poco diplomatica, che lo porta a tranciare giudizi netti e severi, mal si accorda con la prudenza richiesta dalla Tv di Stato.
Muore il 18 febbraio 2005, a soli 69 anni, nella natìa San Nicolas, per un tumore al pancreas.
Perfetta la definizione che di lui diede l’Avvocato: “E’ più di un fuoriclasse: per chi ama il calcio Sivori è un vizio”.
Peccato che gli attuali proprietari della Juventus non ne abbiano, di QUESTI vizi.
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