Più d’uno lo avrebbe voluto sulla panchina bianconera, dopo il grigio Ranieri: invece fu la Juve di Ferrara, non quella degli occhi della tigre di Antonio Conte, il capitano di tante battaglie, amato dai tifosi perché della Juve incarnava lo spirito indomito: lui che aveva sempre affrontato le avversità (gli infortuni che lo hanno spesso penalizzato) con grinta e forza d’animo, che spesso con la sua determinazione, e a volte con i suoi goal (e lui goleador di ruolo non era), aveva raddrizzato partite che sembravano compromesse, avrebbe anche potuto essere la persona giusta proprio quando la Juventus stava attraversando uno dei momenti più difficili e incolori della sua storia.
Ma Antonio non aveva lo smile richiesto dal momento societario e la sua carriera ha preso altre direzioni. Non per questo i tifosi hanno cancellato dai loro pensieri il ricordo di quel ragazzo, arrivato alla Juve, la sua squadra del cuore, giovanissimo, nel 1991, a soli 22 anni: era anche quella una Juventus da rifondare, dopo il disastro del tandem Montezemolo-Maifredi: c’era bisogno, nella squadra affidata a Trapattoni, di un centrocampista capace di interdire, ma anche di saper far ripartire l’azione, di distruggere ma anche attaccare.
Certo, qualcuno a Torino avrà pure storto un po’ il naso, consegnare il centrocampo che era stato, qualche anno prima, di un certo Beppe Furino a questo ragazzo che aveva debuttato cinque anni prima, appena diciassettenne, allo stadio di via del Mare, in Lecce-Pisa, facendo subito innamorare di sé i tifosi salentini, per la sua voglia di sfondare, il suo gioco fatto di tanta corsa e poi il suo coraggio per rimettersi in piedi dopo il primo degli infortuni che ne hanno costellato la carriera, una frattura di tibia e perone, e un anno di stop. Ma gli scettici si son dovuti presto ricredere ed oggi la firma dei piedi di Antonio Conte, che non saranno stati piedi da brasiliano ma erano stramaledettamente efficaci, si trova in calce a molti successi della truppa bianconera.
E’ il Trap a lanciarlo nella Juve e nel grande calcio, ma è con Marcello Lippi che ottiene le maggiori soddisfazioni. Il primo grande successo è lo scudetto del 1994-95, un figliol prodigo atteso nove anni e perciò ancor più amorevolmente abbracciato, uno scudetto in cui Antonio ha gran merito in quanto con Angelo di Di Livio e Paulo Sousa forma quel centrocampo in grado di supportare un tridente come quello composto da Vialli, da Ravanelli e dall’astro nascente di Del Piero; quello scudetto che consente alla Juve di cavalcare a briglia sciolta verso la conquista della Champions League, con la finale dolceamara per Antonio: dolce per la conquista del trofeo, ma amara perché in quella finale costretto a uscire dal campo per una botta subita da Davids, che lo avrebbe costretto a rinunciare agli Europei. Sempre nel ’96 la maledizione di un altro infortunio, ai legamenti del ginocchio sinistro, gli impedirà di alzare, da capitano qual era, la coppa Intercontinentale che i suoi compagni conquistano a Tokyo. Tornato in squadra, non ha più la fascia di capitano, che Lippi ha consegnato a Del Piero, ma è intatto il suo orgoglio, quell’orgoglio che lo porterà a brillare di nuovo agli ordini di Ancelotti, nella cui formazione è pedina insostituibile.
L’anno 2000 è un anno nero per Antonio Conte: il 14 maggio, nella piscina di Perugia, arbitro quel Collina che la Gazzetta ebbe l’impudenza di premiare con un bell’otto in pagella, la Juve, ridotta in dieci, complice proprio una difettosa respinta di capitan Conte, perde lo scudetto a favore della Lazio: giornata amarissima per Antonio e tutti i tifosi bianconeri. Ma non è finita: Conte partecipa agli europei, mette a segno un bellissimo goal in rovesciata contro la Turchia, ma nei quarti un’entrata killer di Hagi gli procura la lesione di un legamento della caviglia sinistra, impedendogli di prendere parte alle ultime due gare.
Ma della delusione di Perugia Antonio Conte si rifarà due anni dopo, il 5 maggio 2002, con lo scudetto conquistato a spese dell’Inter; e nello spogliatoio, insieme alla sua immensa gioia, esploderà anche il ricordo della rabbia e dell’amarezza di due anni prima: “Stiamo godendo! Questa è l’amarezza di due anni fa a Perugia! E c’è qualcuno che ci guarda e che c’era a Perugia!” Il qualcuno ha un nome e un cognome: Marco Materazzi. Due anni prima, il difensore, che nel Perugia appunto militava, invece di rispettare la delusione degli sconfitti, urlava: ‘Ho vinto lo scudetto’, da tifoso della Lazio. Materazzi si riconosce in quell’allusione e ribatte con un irridente sfottò, dicendo, in riferimento alla precedente calvizie del Capitano, che Antonio avrebbe potuto usare il premio scudetto per farsi il parrucchino nuovo. E la risposta, al vetriolo, di Conte non si fa attendere: “Forse non sa che ci sono tecniche nuove, tipo il trapianto di capelli. Per trapiantare il cervello a lui credo che non basterebbe tutto il premio…”
Perché Antonio Conte era, ed è, così: tutto grinta e carattere, sempre pronto a non dare mai per perso nessun pallone sul campo, sempre pronto a rintuzzare ogni attacco, a raccogliere il guanto di ogni sfida fuori dal campo: lo ha fatto da capitano della Juventus, lo fa ora, girando le panchine d’Italia, non disdegnando nemmeno qua ogni sfida, come quella di essersi seduto lui, leccese, sulla panchina del Bari, in seguito alle dimissioni di (strani i casi della vita…) Materazzi padre, abbattuto da un tonfo contro il Lecce: un’altra scommessa vinta, perché l’anno dopo Antonio Conte condurrà il Bari alla conquista della Serie A. Non lo nasconde: è juventino dentro, e allenare la Juve lo riempirebbe di orgoglio. In bocca al lupo, capitano!
Antonio Conte, un capitano per tutte le stagioni
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