E’ il caso, bisogna dire proprio così, a catapultare Pietruzzu, Pietru u turcu, il Pelé bianco, all’anagrafe Pietro Anastasi, nel mondo del grande calcio.
Era nato il 7 aprile 1948, a Catania, e i primi calci li aveva dati in piazza, marinando la scuola, spesso a piedi nudi per non rovinare le scarpe. Comincia a giocare per davvero nella sua Catania, nella Massiminiana, in serie D e da lì lo rapisce il destino.
Succede che il rubicondo Alfredo Casati, uomo di fiducia di Giovanni Borghi, il re dei frigoriferi allora proprietario del Varese Calcio, perde l’aereo che doveva riportarlo a casa e decide di ingannare il tempo dell’attesa accogliendo un invito di andare a vedere l’enfant prodige del luogo, Pietruzzu appunto. E’ amore a prima vista e Pietro parte per il centro sportivo di Comerio, dove si allena anche la grande Ignis, dominatrice nel basket. Il Varese, in quella stagione 1966-67, gioca in serie B e grazie anche alle prestazioni di Anastasi ottiene la promozione in A: e il 4 febbraio 1968 Varese-Juventus termina 5-0, con 3 reti di Pietruzzu. Subito si evidenziano i pregi del piccolo attaccante: ha uno scatto ed una velocità impressionanti, grazie ai quali riesce quasi sempre a raggiungere il pallone prima dell’avversario, sopperendo così alla sua lacuna più evidente, lo stop approssimativo. Valcareggi lo chiamerà in nazionale ed Anastasi segnerà, al volo, in mezza rovesciata, il goal del 2-0 destinato a laureare l’Italia campione d’Europa. Nel frattempo, già in procinto di passare all’Inter, mentre anzi sta disputando un’amichevole contro la Roma in maglia nerazzurra, segnando anche due gol, apprende di essere stato acquistato dalla Juventus. Autore dello scippo l’Avvocato in persona che, colpito dalle doti di fantasia e imprevedibilità di Pietruzzu, brucia sul tempo Fraizzoli e conclude l’affare direttamente col patron Borghi, per una cifra esorbitante, attorno ai 650 milioni di lire, più, si dice, una fornitura di motori per frigoriferi alla Ignis.
L’accoglienza a Torino è uno choc: Pietro si presenta in sede con i capelli lunghi e senza cravatta e il presidente Catella lo congeda invitandolo a ripresentarsi con un abbigliamento più consono, camicia, cravatta e capelli corti. Anche l’allenatore, il ‘sergente di ferro’ Heriberto Herrera, il ‘ginnasiarca’ perfezionista ed intransigente, lo riprende sovente nel corso degli allenamenti.
Ma il pubblico invece accoglie con molta simpatia il picciotto catanese, tutto estro, istinto e generosità, perdonandogli qualche lacuna tecnica. Il primo anno segna 14 reti e il secondo, quando l’allenatore è il compianto Armando Picchi, suo ex compagno di squadra nel Varese, va a segno 15 volte. Quando Picchi si ammala, gli subentra ‘Cesto’ Vycpalek, che rimprovera spesso a Pietro i suoi atteggiamenti esuberanti, talora persino spocchiosi.
Sogna i mondiali messicani, Pietro, ma non partirà: la sera prima della partenza uno scherzo malandrino quanto pesantemente inopportuno da parte di un massaggiatore, che lo colpisce con un asciugamano bagnato ai genitali, gli causa un trauma che lo costringe ad operarsi ed a saltare l’avventura mondiale.
Dopo una stagione anonima, nella stagione 1971-72, con l’arrivo di Bettega che per i suoi colpi di testa può valersi (almeno fino a metà gennaio, quando purtroppo si ammala) dei cross dell’altruista Anastasi, arriva lo scudetto, ed anche Pietruzzu segna 11 gol importanti, ribelli e impossibili. Un altro scudetto (con 16 gol), poi una finale persa di Coppa Campioni e la partecipazione ai mondiali del 1974.
Sempre problematici i suoi rapporti col mister. Un giorno, si racconta, Pietro, entrando nello stanzino dell’allenatore senza bussare, protesta con Vycpalek perché gli ha preferito Altafini, più anziano ma, in quel periodo, più tonico; gli grida sul naso: “Io sono Anastasi!!!”; e “Cesto”, pacioso e imperturbabile, ribatte: “E quello lì si chiama Altafini!!!”.
L’anno successivo inizia la fase declinante della carriera di Anastasi, che non è più brillante, ha perso la sua verve, non è più la star, soppiantato dai nuovi leaders Bettega, Causio e Furino.
Il 27 aprile 1975 il nuovo allenatore Carlo Parola lo lascia in panchina contro la Lazio; Pietro non nasconde il malumore e, entrato nel secondo tempo, sotto la spinta dell’adrenalina, nel giro di 5 devastanti minuti, segna 3 gol 3 ai biancocelesti.
Ma il suo tempo a Torino è finito: forse il suo gioco tutto istinto, i suoi scatti a ripetizione lo hanno logorato; Boniperti lo cede all’Inter ricevendone in cambio il più anziano Boninsegna e cento milioni; e “Bonimba” con la Juve vincerà due scudi e una coppa UEFA, mentre Pietruzzu non riesce più a segnare come sa: 7 reti in 46 partite e solo una Coppa Italia.
Ma forse la Juve gli è rimasta dentro, perché la prima volta che affronta la sua ex squadra sbaglia due reti madornali; e corre voce che, appena tornato negli spogliatoi, fosse solito chiedere subito il risultato della Juventus.
E anni dopo dice: “Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino”.
Il ragazzo dagli occhi scuri e dalle gambe svelte, partito dalla Sicilia a 18 anni in cerca di gloria, conclude piuttosto mestamente la sua storia sui campi di calcio, militando per tre stagioni nell’Ascoli e una nel Lugano.
Ma non importa: negli occhi dei tifosi della Juventus, che pur, si sa, sono esigenti di natura, rimangono i suoi gol straordinari, con guizzi abbaglianti e tiri che sono vere sciabolate, frutto di un’istintiva astuzia; rimane il suo gioco, fatto di intùito, di genio e sregolatezza, pur se di tecnica non eccelsa, un gioco che non si nutre di senso tattico, ma dà la caccia al gol: e il gol è la magìa del calcio.
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