La solitudine del numero uno
“C’è poco da fare, in porta sei un uomo solo, la fiducia te la devi conquistare e le responsabilità te le devi saper prendere”; sono parole di Dino Zoff, il ‘portierissimo’ in un’epoca i cui portieri portavano tutti davvero il numero uno, e non il 99 o il 34 o il 17 come ora: ma la solitudine del ruolo è rimasta la stessa, un ruolo difficile e ingrato, dove un errore pesa sulla coscienza del ‘peccatore’ per lungo tempo, perché non può riscattarsi su iniziativa personale, come l’attaccante, che con un’azione e un goal può far dimenticare l’occasione mancata: il portiere dovrà invece aspettare che siano gli avversari a consentirgli di compiere il ‘miracolo’ in grado di rivalutarlo agli occhi dei tifosi e della critica.
Ma tutto ciò non era certo un peso tale da schiacciare lo spirito di Zoff, solida tempra di friulano. Nato il 28 febbraio 1942 a Mariano del Friuli (Gorizia), si racconta che già a quattro anni calciasse la palla contro il muro per riprenderla in tuffo: era vera vocazione al mestiere del portiere.
L’esordio in serie A con l’Udinese reca la data del 24 settembre 1961 a Firenze: è un brutto esordio, Dino incassa cinque reti, ma è comunque la nascita di una stella.
Dopo due anni ad Udine passa al Mantova e quattro anni dopo al Napoli, dove rimane fino al 1972; a 30 anni viene infine acquistato dalla Juventus, che deve rimpiazzare l’incerto Carmignani: ed è subito scudetto. Uno scudetto vinto in volata, grazie al successo nell’ultima partita a Roma contro i giallorossi (reti di Altafini e Cuccureddu), mentre il Milan capitola nella ‘fatal Verona’ per 5-3: è il 20 maggio 1973.
In bianconero Dino disputa undici stagioni, saltando soltanto una partita a causa di un infortunio ad una mano, inanellando un record dopo l’altro: 330 partite di campionato più altre 146 in altre competizioni, 903 minuti di imbattibilità in campionato. La storia si ripete in Nazionale: 112 presenze, 59 con la fascia da capitano, 1134 minuti di inviolabilità.
Freddo, carismatico, essenziale, trasmette a tutto il reparto difensivo, e a tutta la squadra, un’assoluta tranquillità. Forte tra i pali, sicuro nelle uscite, attento e rapido nei rilanci, sempre in partita anche quando la palla è lontana da lui. Insomma mente e fisico in equilibrio, come nella massima di Giovenale, mens sana in corpore sano. Il capolinea arriva alla soglia dei quarant’anni dopo grandissime soddisfazioni, tra cui l’indimenticabile trionfo nel mondiale di Spagna 1982, segnato anche dalle parate delle sue manone.
Il suo più grande rimpianto di atleta? Aver lasciato il calcio giocato con due cocenti delusioni: la sconfitta con la Juve in finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo e, quattro giorni più tardi, la sconfitta per 2-0 in Nazionale contro la Svezia e la conseguente mancata qualificazione agli Europei.
Questo è l’atleta. Ma, se possibile, ancor più grande dell’atleta è l’uomo: serio, educato, misurato, molto riservato, intelligente, calmo, calmo di quella calma che serve per essere glaciale nei momenti topici, un esemplare difficile da reperire nel panorama calcistico: c’è nella sua epoca un calciatore che ha caratteristiche simili e che diviene suo ottimo amico: è Gaetano Scirea, secondo di Zoff allenatore proprio alla Juve; poi un feroce destino, un dannato incidente automobilistico in Polonia, strappa Scirea all’affetto di Dino e di tutti noi; e Zoff si sente all’improvviso un po’ più solo e rifiuta qualsiasi altro secondo.
Allenatore, si è detto; già, perché, terminata la carriera di calciatore Dino entra nei ranghi tecnici della FIGC e porta la nazionale Olimpica a qualificarsi per il torneo Olimpico di Seoul.
Nell’estate del 1988 viene chiamato sulla panchina della Juventus a sostituire il mediocre Marchesi; rimane due anni alla guida di una squadra in realtà poco competitiva, ma il secondo anno riesce comunque a rimpinguarne il palmarès vincendo Coppa Italia e Coppa Uefa; e ciò nonostante abbia ormai le valigie in mano, perché sa che dovrà lasciare a fine stagione; in società si sono invaghiti del verbo zonaiolo e del calcio champagne di Gigi Maifredi e la sorte di Zoff è segnata, sebbene la squadra gli si stringa attorno e chiami a raccolta tutte le sue forze per portare a casa quei due successi.
Nonostante queste due autentiche imprese, vista la modestia della rosa a disposizione, viene quindi scaricato dalla società, da tempo fidanzata con Maifredi; la stragrande maggioranza dei tifosi è con lui e segue con apprensione l’evolversi della situazione, in un’altalena di speranza e delusione; ma la società non ritorna sulle sue decisioni e senza far polemiche Zoff lascia la Juve. Lui ben sa che il tempo è galantuomo e il tempo non ci metterà molto a dare il suo responso: la Juve di Maifredi, con Montezemolo vicepresidente, nonostante 70 miliardi di investimento, fallirà vergognosamente, giungendo solo settima in campionato.
La carriera di Zoff allenatore continuerà poi alla Lazio, in Nazionale (dal 1998 al 2000) infine alla Fiorentina.
Adesso, dopo tante battaglie, si riposa; realisticamente è cosciente che per uno come lui, serio e incapace per natura di prestarsi a squallidi giochi di potere, il rientro nel mondo del calcio, un mondo in cui al potere ci sono sempre gli stessi individui, è altamente improbabile: le posizioni al vertice, le uniche che potrebbero competergli, sono appannaggio dei soliti noti; dovesse accadere, allora sì che finalmente sarebbe cambiato qualcosa.
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