E’ passato un anno di tempesta telefonica e, proprio quando da più parti – anche al di fuori del popolo juventino - si cominciava a ripensare l’intera vicenda di Calciopoli in termini più obiettivi, ecco irrompere di nuovo sulla scena mediatica la seconda ondata.
Questa volta non si tratta di intercettazioni, ma di tabulati di traffico telefonico, per di più incertamente ricostruito, di schede straniere.
Mi astengo dal fare considerazioni su questo secondo capitolo perché non circolano dati di conoscenza affidabili e chiari circa la sua effettiva portata, registrandosi nel contempo la diffusione di dati marchianamente fasulli, quale quello relativo alla localizzazione delle sim con un margine di errore di 8 metri, che rivela un interesse latente a supportare nella pubblica opinione un giudizio di attendibilità dell’indagine nel suo complesso.
Dimentichiamo per ora le sim straniere, o meglio accantoniamole come ipotesi che l’argomento sia proposto per rafforzare la credibilità dell’originario impianto di calciopoli, e cerchiamo di analizzare quanto di anomalo a nostro avviso in quell’impianto vi fosse.
Da autorevole pulpito si è dichiarato che quelle sentenze corrispondevano e assecondavano un diffuso sentimento popolare ostile alla Juventus, sentimento che si era formato negli anni con il determinante apporto dei mezzi di comunicazione, geopoliticamente estranei all’area di influenza torinese, essenzialmente romani e milanesi.
Questa dichiarazione riconosce da un lato che le sentenze sportive non vennero pronunciate secondo diritto, ma dall’altro ci dice una cosa ancora più importante: che non è possibile giudicare secondo diritto, se l’aspettativa popolare è unanimemente orientata a pretendere pronunciamenti conformi ai propri sentimenti.
Nella Storia i processi popolari si sono svolti sempre così e anche quello alla Juventus, nel suo piccolo, è stato un processo popolare.
Anche se in tutti i processi così detti popolari chi dirige effettivamente le operazioni è una ristretta élite di potere, alla massa essendo riservato il delicato ruolo di applaudire alla mannaia. Che di unanimità si sia trattato non mi pare vi siano dubbi: la stessa società cavalcò l’onda, i tifosi juventini furono travolti, oltre che dalla propria snobistica e signorile pigrizia sabauda, dalla rapidità degli eventi e dalla mancanza di informazione contraria.
I pochi bastian contrari non avevano voce e forza sufficiente per incidere sul quel processo inarrestabile, che ha portato alla distruzione di una squadra di calcio di livello mondiale e alla destrutturazione di una società per azioni quotata in borsa.
Quindi possiamo dire che esisteva già un humus fertile e che sarebbe bastata un’abile opera di seminagione per produrre il risultato conseguito. Descrivere l’opera dei media nel corso degli anni sarebbe impresa enciclopedica e probabilmente inutile. Ne accenno un breve campionario tratto dai ricordi personali: enfatizzazione degli episodi controproducenti per la Juve, sottovalutazione di quelli di segno opposto, giustificazionismo fino all’infantilità per gli avversari, uso fazioso di moviole e affini.
Un episodio voglio trattare nello specifico, perché tornato di attualità in questi giorni, il famoso gol di Cannavaro, annullato dall’arbitro De Santis in Juventus-Parma, episodio che, per il clamore suscitato, determinò l’atteggiamento dell’arbitro Collina nella successiva partita Perugia-Juventus, quella indimenticabile del nubifragio e dello scudetto alla Lazio.
Si disse - e probabilmente era vero, o quantomeno le moviole non rilevarono nulla - che in area di rigore non fosse accaduto niente che giustificasse l’interruzione del gioco; si sottovalutò, pur non potendolo ignorare, che il calcio d’angolo assegnato al Parma, da cui scaturì l’azione dello scandalo, era frutto di un errore dell’arbitro De Santis ( in altri casi già questo sarebbe bastato come giustificazione per rendere irrilevante l’annullamento del gol ), ma per enfatizzare il criminale annullamento del gol le moviole fermarono il pallone in aria in concomitanza con il fischio dell’arbitro, tanto per dimostrare che l’arbitro aveva interrotto l’azione quando si era reso conto che Cannavaro avrebbe potuto segnare un gol alla Juve.
Come dire, nel calcio d’angolo c’è soltanto un errore, mentre nell’annullamento c’è una volontà finalizzata a favorire una squadra in danno di altre, il Parma e le concorrenti per la vittoria nel campionato. Questa piccola operazione dà in pasto al teleutente due messaggi: Juve protetta, arbitro complice. Bene, questa operazione è scientificamente un falso.
E’ assodato che il cervello umano ha un tempo di reazione tra la percezione esterna e la determinazione di un comportamento, chiamato tempo psicotecnico di reazione, che viene calcolato approssimativamente intorno ad un secondo, variando da soggetto a soggetto, a seconda delle sue condizioni psicofisiche, con oscillazioni minime.
Ciò significa che il fischio dell’arbitro De Santis era stato deciso circa un secondo prima e che quindi lo zelante moviolista avrebbe dovuto fermare la palla in aria prima ancora che si avvicinasse all’area di rigore, ma ciò non sarebbe stato utile a spargere l’ulteriore piccolo seme nell’humus della pubblica opinione.
Qualsiasi avvocato conosce queste elementari nozioni, peraltro intuibili, e le applica giornalmente nelle cause relative agli incidenti stradali per calcolare la velocità delle autovetture, desumendola dalle tracce di frenata, ma quando il processo è quello di Biscardi gli avvocati, che pur spesso vi partecipano, dismettono la toga e invece della fisica e del diritto imbracciano la metafisica militante. Nessuno infatti fece quella semplice osservazione, che avrebbe smontato il tutto.
Tornando al nostro ragionamento iniziale, c’era un sentimento popolare pronto a reclamare punizioni esemplari solo che gli si fosse data l’occasione buona. Ed eccoci alle intercettazioni telefoniche. Tralasciamo qualsiasi riferimento allo scandalo Telecom, a come nasca in relazione al calcio e a chi lo abbia innescato e alimentato. Nel discorso che si sta facendo sarebbero un diversivo superfluo.
Prendiamo per buone le intercettazioni così come sono, dimenticando ogni sospetto sulla loro formazione. Lo sconcerto che ci prende, e che in qualche caso prende anche chi juventino non è, è che quelle intercettazioni, pur puntate su un angolo visuale ristretto ( la Juve e Moggi ), riescono a offrire squarci di un contesto generale fatto di piccoli favori, relazioni coltivate nell’aspettativa di un occhio di riguardo, millanterie, interessi anche personali, il tutto tipico del mondo del calcio, così come della società italiana.
Il giudizio che potrebbe dare chi, frequentando quello stesso mondo attenendosi a dettami di signorile ed indefessa onestà, potrebbe essere - al massimo - di slealtà, se non di volgarità pura e semplice. Sempre che ce ne siano di frequentatori con quelle qualità. Non c’è un solo indizio di partite truccate o comprate, nessuna valigia piena di soldi e neppure promesse vaghe di compensi di alcun genere; eppure il sentimento popolare ha recepito proprio questo, partite truccate o comprate, nonostante che le stesse sentenze della giustizia sportiva lo abbiano escluso.
Lo stiracchiamento e l’interpretazione faziosa dei contenuti delle telefonate sono operazioni di dettaglio per giustificare il linguaggio usato dai media, quello che resta nell’animo delle persone sono però le parole d’ordine. Sono quello che hanno sempre amato pensare e che i mezzi di informazione hanno veicolato con il linguaggio più che con gli argomenti: semplicemente aggiungendo la desinenza “ opoli “ alla parola “ calcio “. Calciopoli vuol dire, nel linguaggio della comunicazione, corruzione degli arbitri. Se poi la parola Calciopoli vira in Moggiopoli, il gioco è fatto: si sa già chi è il corruttore.
Se il contesto della corruzione viene chiamato Cupola, non si sfugge: corrotto e corruttore sono “il” sistema. La belva antijuventina viene così risvegliata. Poco importa che non ci sia traccia negli atti e nelle parole dei giudici sportivi dell’esistenza di cupole o di corruzioni, la giustizia sportiva non ha potuto comunque ribellarsi al sentimento popolare.