Al lettore il paragone tra il caso Dreyfus e lo scandalo, che da alcuni è definito Calciopoli, potrebbe apparire esagerato ma, chi avrà la pazienza di seguire le mie argomentazioni, capirà che non è così. A maggior ragione posso fare questo parallelismo dopo le sentenze relative al processo GEA.
Ricordo che Dreyfus era un capitano d'artiglieria dell’esercito francese, accusato di tradimento e condannato ai lavori forzati.
Alcuni intellettuali, tra i quali Emile Zola, si accorsero che il processo fu politico, che le prove erano farlocche (furono falsificati alcuni carteggi), che i giornali ne approfittarono per dare sfogo al loro sentimento antisemita; Dreyfus, infatti, aveva origini ebraiche.
Storia drammatica, che si concluse con la completa riabilitazione dell’ufficiale avvenuta nel 1906, dopo mille peripezie, tra le quali la condanna a un anno di reclusione ad Emile Zola e la revisione del processo per Dreyfus, con la grottesca condanna per "tradimento con attenuanti" (lo Stato non poteva ammettere l’errore né, tantomeno, il complotto).
Storia drammatica, dunque, dove io, umilmente, vedo qualche analogia che qui vi propongo.
La sentenza che condanna i Moggi (padre e figlio) è come la sentenza della revisione del processo di Dreyfus, anche al "Mostro del mondo del calcio" si è voluto dare una condanna, purchessia. Moggi deve essere colpevole di qualcosa, nel caso specifico di "violenza privata" per aver minacciato di spedire un calciatore in tribuna, se questi non accettava (dopo una pessima annata) il trasferimento ad altra società, tra l’altro con aumento di stipendio.
Condanna purchessia; il sistema doveva veder scritto nel dispositivo della sentenza la parola condanna, anche a costo di commettere un errore.
Macabramente assurda, passatemi il termine, la sentenza che definisce "violento" il comportamento di Moggi, nel paese dei mille morti sul lavoro all’anno, del caporalato, del lavoro nero e del lavoro precario.
Non voglio essere ingeneroso con il giudice Fiasconaro e con il suo collegio giudicante, ma questo è quanto mi sento di dire (in attesa delle motivazioni), da libero cittadino. Sebbene mi renda conto delle immense pressioni mediatiche poste in essere da un sistema che esigeva, comunque, di veder scritta la parola condanna. Ancora più difficile, il suo lavoro, se si considera che come pubblico accusatore c’era il Presidente della ANM. Una totale sconfessione dell’impianto accusatorio sarebbe stata anche essa cinicamente usata, da chi vuole separare le carriere all’interno della magistratura, per delegittimare il Presidente della ANM, che è contraria.
Insomma, una sentenza che non poteva essere serenissima a mio avviso. Moggi è vittima anche di cose più grandi di lui.
Ma non basta, perché discutibile è stato il processo, macchiato, quantomeno, da qualche pressapochismo da parte dell’accusa.
Basti pensare all’esilarante caso di Davide Lippi, accusato di aver indotto il calciatore Giorgio Chiellini a servirsi della GEA, dietro la promessa di vestire la maglia della Nazionale di calcio, grazie ai buoni uffici di Davide con il padre, CT della Nazionale. C’è stato, in questo caso, un solo granello (o macigno) che si è insinuato negli ingranaggi della macchina dell’accusa: all’epoca dei fatti il CT della Nazionale era Giovanni Trapattoni.
Ma non solo pressapochismo: si può coltivare anche l’idea di un processo macchiato da una possibile malafede di taluni. Baldini, massimo accusatore di Moggi, ha dichiarato di fronte al giudice di non avere rapporti di particolare amicizia con il Maggiore dei Carabinieri Auricchio, estensore delle informative dalle quali è scaturito il processo. Smentito, il Baldini, dall’Auricchio stesso, che ha ammesso di fronte al giudice di conoscere benissimo il Baldini, con il quale si vedeva spesso ai tempi dell’estensione delle informative.
Baldini, nemico di Moggi, suo massimo accusatore e beneficiario dell’estromissione di Moggi dal mondo del calcio, ha dunque mentito. Oppure, viceversa, ha mentito Auricchio, fate voi. Si può pensar male. Perché un ufficiale dei Carabinieri avrebbe mentito? O in alternativa, è credibile il maggior testimone dell’accusa se si ha la certezza che almeno in una circostanza ha detto una bugia?
Quindi, un'accusa macchiata da qualche pressapochismo e con il fumus della malafede da parte di qualcuno.
Però, come nel processo di revisione di Dreyfus, a condanna, sebbene assurda ma mite, si doveva arrivare. Il sistema, l’opinione pubblica e i manovratori a mezzo stampa della medesima lo richiedevano.
Il sistema doveva vedere la parola "condanna" che, in Italia, visto il contesto sociale, appare grottesca e offensiva dei milioni di persone che silenziose violenze, sul posto di lavoro, le subiscono davvero.
Ma come nel caso Dreyfus, l’opinione pubblica e i suoi manovratori a mezzo stampa, meritano un capitolo a sé.
Ricordo che nel caso Dreyfus la stampa, escluse lodevoli ed eroiche eccezioni (vedi L’Aurore di Emile Zola), era ferocemente schierata contro il malcapitato capitano d’artiglieria. Unica colpa quella di essere ebreo, nel periodo in cui cresceva in Europa il demone dell’antisemitismo: un ebreo non poteva che essere un traditore!
Così, anche nel caso Moggi, si nota uno spettacolare fuoco di fila da parte della stampa. Sia essa popolare che "politica, alta ed impegnata".
Per fare un'analisi corretta è necessario fare differenti considerazioni per quella sportiva rispetto a quelle cosiddetta "d'opinione".
Nel caso della stampa sportiva si è voluta solleticare la frustrazione di tifosi adusi a decenni di sconfitte e di delusioni, questo per aumentare le vendite di giornali, ormai alla "canna del gas".
Non è da escludere, naturalmente, in certi casi, che alcuni giornali siano stati manovrati da qualcuno per consentire l’eliminazione politica della Juventus della Triade.
Troppi potenti hanno subito cocenti sconfitte e gravi danni di natura economica e, dunque, hanno giocato la loro "arma fine di mondo" di kubrikiana memoria.
Non si riusciva a vincere sul campo, troppo bravi e troppo competenti i componenti della triade bianconera, quindi, occorreva eliminarli brandendo intercettazioni, sapientemente e illegalmente passate, a certa stampa sportiva. A questo punto era facile montare lo scandalo.
Gli altri giornali non potevano che accodarsi, pena la perdita di lettori che, altrimenti, si sarebbero spostati sui "giornali-megafono" delle intercettazioni.
Molto più complesso il caso della stampa "politica". In questo caso si nota uno scarso interesse per il caso calciopoli in quanto tale (al massimo vi è un interesse delle sezioni sportive delle redazioni).
Mentre, invece, capita spesso di vedere un utilizzo del caso calciopoli con il fine della lotta politica. Precisamente, mi riferisco ad articoli di "autorevoli" commentatori che ritengono ingiusta la modifica alla legge sulle intercettazioni "se no, non avremmo saputo nulla neanche dei maneggi nel mondo del calcio". Come vedete si tratta di pure strumentalizzazioni, di cinico utilizzo di fatti sui quali la magistratura deve ancora giudicare, per fini di lotta politica.
Tutto questo in spregio dei più elementari diritti degli indagati, che avrebbero diritto a difendersi in un contesto nel quale l’opinione pubblica non li ha già condannati.
Spiace che a cadere nel tranello sia anche un coltissimo e raffinatissimo magistrato come Roberto Scarpinato che, nel suo libro "Il ritorno del Principe", argomenta sulla necessità di non modificare la legge sulle intercettazioni, tirando in ballo il cosiddetto scandalo di "calciopoli".
In definitiva, si spera che almeno il processo di Napoli, sul secondo troncone del fantomatico scandalo, sia sgombro da strumentalizzazioni politiche e giornalistiche, siano esse "alte e colte", siano esse "popolari e sportive".
Moggi, Giraudo e, in definitiva, la Juventus, hanno il diritto di difendersi senza che la stampa aizzi l’opinione pubblica. Non devono esistere processi che iniziano con l’opinione pubblica inferocita, che pretenda un colpevole purchessia, nonostante le carte gridino l’innocenza degli imputati. Tutto questo se non si vuole trasformare l’Italia del ventunesimo secolo nella Francia del diciannovesimo, del caso Dreyfus.
Se questo minimo di civiltà sarà garantito, chi come me ha letto tantissime carte e ascoltato tutte le intercettazioni rese pubbliche, non avrà dubbi: Moggi, Giraudo e, di conseguenza, la Juventus, saranno assolti perché il fatto non sussiste (almeno dalla lettura degli atti resi pubblici dalla stampa ndr).
A quel punto i magistrati che sostengono l’accusa (sia a Napoli che a Roma), se cittadini amanti della giustizia, forse, dovrebbero prendere la migliore delle decisioni: appendere la toga al chiodo.
Ricordo che Dreyfus era un capitano d'artiglieria dell’esercito francese, accusato di tradimento e condannato ai lavori forzati.
Alcuni intellettuali, tra i quali Emile Zola, si accorsero che il processo fu politico, che le prove erano farlocche (furono falsificati alcuni carteggi), che i giornali ne approfittarono per dare sfogo al loro sentimento antisemita; Dreyfus, infatti, aveva origini ebraiche.
Storia drammatica, che si concluse con la completa riabilitazione dell’ufficiale avvenuta nel 1906, dopo mille peripezie, tra le quali la condanna a un anno di reclusione ad Emile Zola e la revisione del processo per Dreyfus, con la grottesca condanna per "tradimento con attenuanti" (lo Stato non poteva ammettere l’errore né, tantomeno, il complotto).
Storia drammatica, dunque, dove io, umilmente, vedo qualche analogia che qui vi propongo.
La sentenza che condanna i Moggi (padre e figlio) è come la sentenza della revisione del processo di Dreyfus, anche al "Mostro del mondo del calcio" si è voluto dare una condanna, purchessia. Moggi deve essere colpevole di qualcosa, nel caso specifico di "violenza privata" per aver minacciato di spedire un calciatore in tribuna, se questi non accettava (dopo una pessima annata) il trasferimento ad altra società, tra l’altro con aumento di stipendio.
Condanna purchessia; il sistema doveva veder scritto nel dispositivo della sentenza la parola condanna, anche a costo di commettere un errore.
Macabramente assurda, passatemi il termine, la sentenza che definisce "violento" il comportamento di Moggi, nel paese dei mille morti sul lavoro all’anno, del caporalato, del lavoro nero e del lavoro precario.
Non voglio essere ingeneroso con il giudice Fiasconaro e con il suo collegio giudicante, ma questo è quanto mi sento di dire (in attesa delle motivazioni), da libero cittadino. Sebbene mi renda conto delle immense pressioni mediatiche poste in essere da un sistema che esigeva, comunque, di veder scritta la parola condanna. Ancora più difficile, il suo lavoro, se si considera che come pubblico accusatore c’era il Presidente della ANM. Una totale sconfessione dell’impianto accusatorio sarebbe stata anche essa cinicamente usata, da chi vuole separare le carriere all’interno della magistratura, per delegittimare il Presidente della ANM, che è contraria.
Insomma, una sentenza che non poteva essere serenissima a mio avviso. Moggi è vittima anche di cose più grandi di lui.
Ma non basta, perché discutibile è stato il processo, macchiato, quantomeno, da qualche pressapochismo da parte dell’accusa.
Basti pensare all’esilarante caso di Davide Lippi, accusato di aver indotto il calciatore Giorgio Chiellini a servirsi della GEA, dietro la promessa di vestire la maglia della Nazionale di calcio, grazie ai buoni uffici di Davide con il padre, CT della Nazionale. C’è stato, in questo caso, un solo granello (o macigno) che si è insinuato negli ingranaggi della macchina dell’accusa: all’epoca dei fatti il CT della Nazionale era Giovanni Trapattoni.
Ma non solo pressapochismo: si può coltivare anche l’idea di un processo macchiato da una possibile malafede di taluni. Baldini, massimo accusatore di Moggi, ha dichiarato di fronte al giudice di non avere rapporti di particolare amicizia con il Maggiore dei Carabinieri Auricchio, estensore delle informative dalle quali è scaturito il processo. Smentito, il Baldini, dall’Auricchio stesso, che ha ammesso di fronte al giudice di conoscere benissimo il Baldini, con il quale si vedeva spesso ai tempi dell’estensione delle informative.
Baldini, nemico di Moggi, suo massimo accusatore e beneficiario dell’estromissione di Moggi dal mondo del calcio, ha dunque mentito. Oppure, viceversa, ha mentito Auricchio, fate voi. Si può pensar male. Perché un ufficiale dei Carabinieri avrebbe mentito? O in alternativa, è credibile il maggior testimone dell’accusa se si ha la certezza che almeno in una circostanza ha detto una bugia?
Quindi, un'accusa macchiata da qualche pressapochismo e con il fumus della malafede da parte di qualcuno.
Però, come nel processo di revisione di Dreyfus, a condanna, sebbene assurda ma mite, si doveva arrivare. Il sistema, l’opinione pubblica e i manovratori a mezzo stampa della medesima lo richiedevano.
Il sistema doveva vedere la parola "condanna" che, in Italia, visto il contesto sociale, appare grottesca e offensiva dei milioni di persone che silenziose violenze, sul posto di lavoro, le subiscono davvero.
Ma come nel caso Dreyfus, l’opinione pubblica e i suoi manovratori a mezzo stampa, meritano un capitolo a sé.
Ricordo che nel caso Dreyfus la stampa, escluse lodevoli ed eroiche eccezioni (vedi L’Aurore di Emile Zola), era ferocemente schierata contro il malcapitato capitano d’artiglieria. Unica colpa quella di essere ebreo, nel periodo in cui cresceva in Europa il demone dell’antisemitismo: un ebreo non poteva che essere un traditore!
Così, anche nel caso Moggi, si nota uno spettacolare fuoco di fila da parte della stampa. Sia essa popolare che "politica, alta ed impegnata".
Per fare un'analisi corretta è necessario fare differenti considerazioni per quella sportiva rispetto a quelle cosiddetta "d'opinione".
Nel caso della stampa sportiva si è voluta solleticare la frustrazione di tifosi adusi a decenni di sconfitte e di delusioni, questo per aumentare le vendite di giornali, ormai alla "canna del gas".
Non è da escludere, naturalmente, in certi casi, che alcuni giornali siano stati manovrati da qualcuno per consentire l’eliminazione politica della Juventus della Triade.
Troppi potenti hanno subito cocenti sconfitte e gravi danni di natura economica e, dunque, hanno giocato la loro "arma fine di mondo" di kubrikiana memoria.
Non si riusciva a vincere sul campo, troppo bravi e troppo competenti i componenti della triade bianconera, quindi, occorreva eliminarli brandendo intercettazioni, sapientemente e illegalmente passate, a certa stampa sportiva. A questo punto era facile montare lo scandalo.
Gli altri giornali non potevano che accodarsi, pena la perdita di lettori che, altrimenti, si sarebbero spostati sui "giornali-megafono" delle intercettazioni.
Molto più complesso il caso della stampa "politica". In questo caso si nota uno scarso interesse per il caso calciopoli in quanto tale (al massimo vi è un interesse delle sezioni sportive delle redazioni).
Mentre, invece, capita spesso di vedere un utilizzo del caso calciopoli con il fine della lotta politica. Precisamente, mi riferisco ad articoli di "autorevoli" commentatori che ritengono ingiusta la modifica alla legge sulle intercettazioni "se no, non avremmo saputo nulla neanche dei maneggi nel mondo del calcio". Come vedete si tratta di pure strumentalizzazioni, di cinico utilizzo di fatti sui quali la magistratura deve ancora giudicare, per fini di lotta politica.
Tutto questo in spregio dei più elementari diritti degli indagati, che avrebbero diritto a difendersi in un contesto nel quale l’opinione pubblica non li ha già condannati.
Spiace che a cadere nel tranello sia anche un coltissimo e raffinatissimo magistrato come Roberto Scarpinato che, nel suo libro "Il ritorno del Principe", argomenta sulla necessità di non modificare la legge sulle intercettazioni, tirando in ballo il cosiddetto scandalo di "calciopoli".
In definitiva, si spera che almeno il processo di Napoli, sul secondo troncone del fantomatico scandalo, sia sgombro da strumentalizzazioni politiche e giornalistiche, siano esse "alte e colte", siano esse "popolari e sportive".
Moggi, Giraudo e, in definitiva, la Juventus, hanno il diritto di difendersi senza che la stampa aizzi l’opinione pubblica. Non devono esistere processi che iniziano con l’opinione pubblica inferocita, che pretenda un colpevole purchessia, nonostante le carte gridino l’innocenza degli imputati. Tutto questo se non si vuole trasformare l’Italia del ventunesimo secolo nella Francia del diciannovesimo, del caso Dreyfus.
Se questo minimo di civiltà sarà garantito, chi come me ha letto tantissime carte e ascoltato tutte le intercettazioni rese pubbliche, non avrà dubbi: Moggi, Giraudo e, di conseguenza, la Juventus, saranno assolti perché il fatto non sussiste (almeno dalla lettura degli atti resi pubblici dalla stampa ndr).
A quel punto i magistrati che sostengono l’accusa (sia a Napoli che a Roma), se cittadini amanti della giustizia, forse, dovrebbero prendere la migliore delle decisioni: appendere la toga al chiodo.