Ieri pomeriggio l’agenzia Ansa ha riportato le seguenti parole del presidente di Exor, J. Elkann: "Un colpo di testa sul mercato per vincere la Champions League? L'Atletico Madrid dimostra che quello non è un fattore differenziante; per questo la ragione per cui tutti amiamo il calcio è che non sono i soldi a fare la differenza".
In effetti in questi ultimi dieci anni diverse squadre con possibilità economiche relativamente contenute sono riuscite a brillare di luce propria durante la massima competizione europea per Club, la Champions League. Per coloro che seguono il calcio in modo assiduo ed appassionato non sarà una sorpresa sentire i nomi di Villarreal, PSV, Lione, Schalke, Porto o Borussia Dortmund accostati a belle imprese da Davide contro Golia. Quindi non soltanto l’Atletico, ma anche altre squadre hanno fatto la storia di questo torneo senza bisogno di svenarsi come invece fanno le prime della classe.
Date le premesse, il discorso del nipote di Gianni Agnelli potrebbe sembrare condivisibile. Apparentemente basterebbe una forte e competente gestione sportiva per ovviare ad eventuali gap economici. In realtà, analizzando con un po‘ di attenzione le ultime dieci edizioni della Champions, compresa l’attuale ormai in via di definizione, il quadro complessivo cambia radicalmente: e così le conclusioni.
Prendiamo per quel periodo di riferimento, anno per anno, il fatturato della stagione precedente come la misura della forza economica di una squadra. Per fare un esempio, per la stagione sportiva 2013/14 contano i ricavi della stagione precedente, 2012/13, dato che sono quelli che rappresentano le possibilità di spesa per la stagione in corso.
Le fonti dei dati economici sono le pubblicazioni annuali della Deloitte Football Money League. Quindi andiamo a vedere i risultati sportivi degli ultimi dieci anni di Champions. Se una squadra arriva in semifinale, ha sicuramente disputato una buona stagione, indipendentemente dagli obiettivi di partenza, più o meno ambiziosi.
Dunque andiamo a vedere quali squadre negli ultimi 10 anni sono riuscite a scrivere il proprio nome nel club delle semifinaliste:
Barcellona 8 volte
Chelsea 5 volte
Bayern Monaco 4 volte
Real Madrid 4 volte
Manchester United 4 volte
Liverpool 3 volte
Milan 3 volte
Arsenal 2 volte
Atletico Madrid 1 volta
Borussia Dortmund 1 volta
Schalke 04 1 volta
Lione 1 volta
Villarreal 1 volta
PSV Eindhoven 1 volta
Inter 1 volta
Già quasi ad occhio nudo emerge dai nomi come in fondo arrivino quasi sempre le società con le maggiori risorse. Alle stesse conclusioni si giunge anche applicando un metodo leggermente piu‘ rigoroso, ovvero contiamo le squadre che nell’anno di raggiungimento delle semifinali non erano nella Top Four dei fatturati di Deloitte dell’anno precedente. In questo modo, in pratica, assumiamo che per chi è tra le prime quattro per risorse raggiungere la semifinale è un atto dovuto, mentre dal quinto posto in giù rappresenta un risultato ottimo se non addirittura straordinario.
Negli ultimi dieci anni 17 volte su 40, squadre che pur non potendo contare su un fatturato da prime quattro hanno tuttavia raggiunto la semifinale della competizione europea. Il 42.5%. All’apparenza una cifra notevole. Ed infatti lo è. Però, di queste 17 volte, solo 6 sono capitate nelle ultime cinque stagioni, compresa l’attuale, mentre tra il 2004/05 ed il 2008/09 è successo per ben 11 volte. Se eliminiamo dal conto le volte in cui è capitato al Chelsea di arrivare in fondo senza comparire tra le prime quattro per fatturato, rimangono 14 volte di cui 5 negli ultimi cinque anni. Ciò vuol dire che delle venti semifinaliste negli ultimi cinque anni, soltanto 5, ovvero il 25%, sono riuscite ad entrarci nonostante le risorse limitate. Invece nel 75% dei casi figurava tra le ultime quattro del torneo proprio una Top Four del fatturato.
A questo punto approfondiamo l’analisi andando a vedere i nomi di queste cinque squadre. Nel 2010 abbiamo l’Inter, che da nona nel fatturato è riuscita a qualificarsi. Tuttavia sappiamo anche a quale costo per le tasche personali del suo presidente e delle banche finanziatrici. Voragini finanziarie dall’onda lunga, se non lunghissima, che pochi anni dopo hanno portato alla vendita della società all’imprenditore indonesiano Thohir.
Quindi abbiamo il Lione, che nello stesso anno ha raggiunto la semifinale da tredicesimo del ranking di Deloitte, ma che poi è dovuto tornare a casa con un secco 0-4 complessivo dal Bayern Monaco.
Nell’anno successivo l’impresa semifinale è capitata allo Schalke, da sedicesimo in classifica. Anche per la squadra tedesca però il percorso è terminato in modo inglorioso con un netto 1-6 complessivo dal Manchester United, poi regolato a sua volta dal Barcellona di Messi, Xavi ed Iniesta in finale.
Nel 2012 c’è il Chelsea, sesto per Deloitte, ma che abbiamo escluso per motivi legati alle enormi disponibilità del suo patron, Roman Abramovič.
E così arriviamo ai tempi recenti, le ultime due stagioni in cui ha partecipato anche la Juventus, con risultati alterni ma complessivamente modesti. L’anno scorso si è segnalato alle cronache sportive il Borussia Dortmund che, da undicesimo economicamente, si è giocato la vittoria di Coppa fino agli ultimissimi minuti della finale.
Invece quest’anno c’è l’Atletico che, da ventesimo, cercherà di alzare per la prima volta nella sua storia la Coppa dalle grandi orecchie.
Quindi abbiamo visto che in realtà la forza economica conta, eccome, per dare una certa stabilità alle performance sportive. L’eccezione può sempre succedere, sebbene anno dopo anno capiti sempre ad una squadra differente e qualche volta ad una società che, nonostante un fatturato relativamente limitato, compra lo stesso per poi coprire eventuali perdite con aumenti di capitale.
Se si vuole competere in modo continuativo con le grandi potenze economiche europee bisogna investire, e investire tanto. La crescita graduale è sicuramente una via da apprezzare. Troppo spesso infatti, specie in Italia, società calcistiche hanno fatto il passo più lungo della gamba, finendo poi per usufruire di salvataggi statali molto discutibili.
Tuttavia la questione fondamentale su cui dovrebbe poggiare la discussione tra i proprietari di riferimento della Juventus è con quale leva si voglia crescere. Una crescita troppo lenta rischierebbe di condannare la società bianconera ad anni e anni di anonimato in Europa e con il rischio di perdere il treno delle potenze economiche che oggi dominano il calcio in un mondo globalizzato e mediatico.
Nel calcio d'oggi sono i successi sportivi e i grandi giocatori ad alimentare la crescita. Ma i successi sportivi, lasciando da parte gli exploit del momento, così come i grandi giocatori, necessitano di grandi investimenti e di coraggio, oltre naturalmente ad un progetto sportivo forte e consolidato, il vero motore di crescita. L’impressione è che tre anni di clamorosi successi in patria, nobilitati ancora di più dal punto di partenza, ovvero le macerie dello smile, abbiano dimostrato che il progetto sportivo è solido. Sia le scelte di composizione della rosa che la gestione della stessa sono sembrate meritevoli di fare il salto di qualità anche in Europa.
A questo punto bisogna avere il coraggio di alzare la leva economica per accelerare la crescita con un circolo virtuoso sotto il controllo manageriale di Andrea Agnelli, che possa autoalimentarsi, dopo un investimento iniziale, da successi sportivi, quindi ritorno d’immagine/fatturato, quindi successi sportivi. In questo modo, elevando l'obiettivo con coraggio, gli investimenti finirebbero per non essere affatto a fondo perduto come invece purtroppo in questi anni è avvenuto più di una volta.
Oltretutto, senza quel coraggio, il rischio ormai concreto è quello di rompere il giocattolo sportivo, ovvero il cuore del motore. La conseguenza sarebbe quella di doversi confrontare con nuove incertezze e soprattutto nuovi reali rischi di fare dei passi indietro rispetto allo stato attuale, e quindi di andare incontro in poco tempo addirittura ad una necessità di dover iniettare capitale, spendendo proprio quei soldi che per mancanza di coraggio o visione non si sono spesi per investire su un progetto sportivo già ben avviato.
Oltre una decina di anni fa il designer di automobili lecchese, Walter Da Silva, autore tra l'altro dell‘auto dell'anno Alfa 156, passò dall'Alfa Romeo alla Volkswagen. Prima per la Seat ma soprattutto dopo per l‘Audi, continuò a creare modelli di grande successo, ad esempio la A6 di seconda generazione che trasformò la percezione dei consumatori in relazione al marchio tedesco, contribuendo in modo concreto ad aumentare in modo esponenziale i ricavi netti. L‘Alfa Romeo invece perse colui che sapeva dare emozioni finendo per avviarsi ad un lento declino (dimezza la produzione di automobili tra il 2001 e il 2008), anche se i recenti modelli hanno permesso di invertire il trend.
È chiaramente condivisibile il principio secondo il quale tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile, in qualsiasi ambito. Tuttavia, inseriti in un contesto solido e virtuoso, sono poi quasi sempre coloro che riescono a trasmettere le emozioni a rappresentare l’anima e spesso il successo di un progetto. Nel caso del calcio, gli artisti che fanno innamorare grandi e bambini sono soprattutto i calciatori e con loro l‘allenatore. Sono principalmente loro a scendere in campo e a bucare lo schermo conquistando riconoscimenti sportivi e d’immagine. Perderli per strada, soprattutto dopo che hanno dimostrato il loro valore e quando ancora possono contribuire in maniera concreta alla crescita della società, rappresenta un forte rischio per la Juventus e allo stesso tempo una grande opportunità... per altri.
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