A porre di nuovo il quesito, in questi ultimi giorni, è stato Stefan Szymanski, professore di economia dello sport all'Università del Michigan e autore, insieme al giornalista del Financial Times, Simon Kuper, del seminale Soccernomics, pionieristico e riuscitissimo tentativo di applicare la statistica e l'analisi econometrica al mondo del calcio. Partendo da una riflessione di tipo semantico sulla parola "fair", l'economista statunitense ne indaga la declinazione assunta nella nuova legislazione UEFA:
Fair play finanziario? Davvero? Cosa c'è di "fair" riguardo al fatto che il Bayern Monaco può semplicemente usare la propria muscolarità finanziaria per comprare tutti i migliori giocatori delle squadre rivali? O che il dominio italiano del Milan è stato creato da Silvio Berlusconi pompando miliardi dal suo impero mediatico nella squadra, ma ora nessun altro può fare la stessa cosa? O che metà dei 5,6 miliardi di euro generati dalla Champions League nell'ultima decade sono finiti a soli dieci club?
Grandi più grandi e piccoli più piccoli?
La critica comprende due diversi tipi di argomento, per molti versi complementari, interessanti da sviluppare. Ci soffermeremo, questa volta, sul primo, ossia l'effetto di congelamento sullo status quo attuale che l'insieme di regole varato dalla UEFA determina.
Imposto l'obbligo del pareggio di bilancio e quindi ridotta la possibilità di investire per attrarre buoni giocatori e quindi ottenere risultati sportivi migliori, condizione necessaria per far crescere le entrate, molto difficilmente le squadre che oggi conseguono minori entrate potranno in futuro essere competitive con i club che hanno già sviluppato un modello di business remunerativo, spesso investendo ben oltre i limiti che una corretta logica finanziaria avrebbe suggerito.
Qualche esempio? Il Chelsea nell'ultima stagione ha generato introiti per 322 milioni di euro, il Manchester City per 285 milioni, l'Inter del triplete ne incassò 225. Tutto ciò, a fronte di passivi di bilancio, anche a otto zeri (negli ultimi due casi). Generando perdite, queste squadre si sono affermate nel calcio europeo, e ora, con il varo del fair-play finanziario, tutto sommato, si prospetta loro un atterraggio morbido. Ridurre la propria spesa ai livelli delle entrate sarà sicuramente impresa complicata, ma lo stesso toccherà ai loro competitori, molti dei quali saranno costretti però a fissare il proprio limite di spesa decisamente più in basso.
Le competizioni europee diventeranno quindi sempre più prevedibili, troveremo sempre le stesse squadre al vertice? Alcuni aspetti del calcio sono imponderabili, ma la relazione tra capacità economica, espressa soprattutto dal monte ingaggi, e performances sportive è solidissima e sembra destinata a rinsaldarsi ulteriormente. E' giusto questo? Davvero improbabile trovare una buona argomentazione a sostegno. Ed è davvero singolare che le luci si accendano sugli investimenti del Monaco, che persegue l'unica strada possibile per ridurre la distanza dalle grandi: spendere molto quando non si partecipa alle competizioni europee e non si è dunque vincolati dalle regole finanziarie UEFA. Qual è la colpa, la macchia etica del Monaco? Fare quello che gli altri hanno già fatto, ma solo un po' più tardi?
Possibile che sia una colpa, ma un'altra strada non c'è. Sia ben chiaro, un ambiente che scoraggia gli investimenti non danneggia soltanto l'oligarca prossimo venturo, ma anche le squadre che fino ad oggi hanno intrapreso un percorso di crescita equilibrato e virtuoso, ma avrebbero bisogno, dopo anni di attivi di bilancio, di investire in calciatori per migliorare ulteriormente i propri risultati e entrare a far parte di un'élite, che è invece destinata a essere immobile. Difficile, ad esempio, che il Napoli, esempio virtuoso, possa compiere un ulteriore balzo in avanti, se la spesa rimane strettamente vincolata alle sue entrate, buone ma decisamente inferiori a competitori europei e italiani.
Senza indulgere in fondamentalismi, si può notare che il fair-play finanziario delle origini, prima che fosse emendato dal legittimo lobbyismo dell'ECA, l'associazione che riunisce i maggiori club europei, capitanata dall'allora amministratore delegato dell'Inter Paolillo, pareva essere maggiormente efficace nel valorizzare la competizione e, soprattutto, premiare la virtù.
L'UEFA lo aveva infatti annunciato come un cambiamento da realizzarsi in breve tempo e drasticamente. Il risultato finale è stato invece un implementarsi delle regole progressivo, attraverso soglie di tolleranza per il disavanzo, e da realizzarsi nel medio periodo. Questa seconda versione consente un atterraggio morbido alle squadre che hanno basato le loro fortune sull'iniezione di denaro da parte dei proprietari, presentando passivi di esercizio enormi. Aderendo alla formulazione primigenia, invece, con ogni probabilità, queste stesse squadre avrebbero dovuto rinunciare alla partecipazione alle competizioni europee per almeno un paio d'anni, favorendo così un ricambio al vertice, che avrebbe permesso ai club di seconda fascia l'opportunità di aumentare le proprie entrate e affermarsi a un livello superiore. Un ambiente dinamico e competitivo, insomma, come il calcio dovrebbe essere. Sia ben chiaro: la preferenza non è dettata da un revanchismo rancoroso e punitivo verso squadre come l'Inter ma dall'impulso allo sviluppo di maggiore competizione. Tanto più che anche la Juventus, prostrata dalla cura Blanc, avrebbe avuto difficoltà a iscriversi alle competizioni europee, se non fosse stata prevista in seconda battuta una soglia di tolleranza per il passivo di bilancio.
Considerato tutto questo, viene da domandarsi se sia più fair una legislazione che sembra proteggere le posizioni dominanti come il fair-play finanziario o se invece addirittura sarebbe più equo e corretto non avere, al riguardo, nessuna legislazione o una molto "leggera". Una domanda da porsi anche nel contesto del sistema giudiziario dell'Unione Europea, come sarà approfondito più avanti.
La legislazione UEFA, con tutta evidenza, è destinata a congelare le posizioni acquisite in questi ultimi anni, di fatto premiando non solo chi ha aumentato le proprie entrate con la dovuta attenzione al bilancio (Real Madrid, Manchester Utd, Bayern Monaco e Arsenal), ma anche chi ha speso ben oltre le proprie capacità (Chelsea, Manchester City, Paris Saint-Germain e, in misura minore, non avendo registrato una simile impennata delle entrate, Inter e Milan).
Va detto che, dichiaratamente, la legislazione UEFA, piuttosto che indicare come obiettivo di fondo una maggiore competitività, si prefigge di aumentare la stabilità finanziaria dei club. Già, ma di quali club? Di tutti o solo dei grandi? L'ulteriore argomento fondante dell'analisi di Szymanski è infatti strettamente correlato al precedente: la mancata effettività delle politiche UEFA (passate e future) nel perseguire risultati di stabilità economica per la stragrande maggioranza delle squadre di calcio, argomento che affronteremo nei prossimi articoli.
Financial Fair Play - Fair enough? /1
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- By Roberto Boncio