“In ogni caso, invece, montagne di m... sui bianconeri, colpevoli soltanto di essere il club più forte e gestito in maniera professionale”.
Sono parole estrapolate dall'articolo di Luciano Moggi pubblicato sabato su Libero e si rifanno al periodo pre-Calciopoli. Sono passati decenni cronologicamente, psicologicamente è passato un secolo, tanto è stato l’impatto di Calciopoli e sulle coscienze e sulla realtà effettuale.
Prima dello Tsunami la Juventus era quella descritta dal suo dg: il club più forte e gestito in maniera professionale; così forte che per riuscire a strapparle qualche scudetto bisognava farla giocare in piscina o cambiare le regole in corsa; così forte che l’invidia di chi non vinceva si attaccava a bufale come er gò de Turone o il goal di Graziani o il fallo da rigore di Iuliano su Ronaldo, episodi la cui unica valenza era quella mediatica, buona ad alimentare il sentimento popolare che tramandava ai posteri la figurina di una Juve ladra. Peraltro le immagini impresse sulla retina di chi assisteva alle partite fissavano invece il ricordo di una squadra persin più forte di quello che i nudi punteggi recitavano.
Poi fu Farsopoli, il frutto della pianta di tanta invidia, innaffiata con cura dagli amanti dei ribaltoni e da chi si era posto come mission quella di orientare l’opinione pubblica. E la Juve sparì, per almeno quattro anni. E per sparì, intendo proprio sparì. L’avevamo lasciata il 14 maggio a Bari mentre alzava il trofeo di Campione d’Italia: ma qualcosa strideva in quella premiazione, mancava chi aveva costruito quel meccanismo perfetto, Luciano Moggi. Lo avevamo ritrovato nel dopogara “L’anima mi è stata uccisa”, poche parole con una voce da cui traspariva lo stesso dolore sgorgato dagli occhi di Bettega una settimana prima. ‘Da stasera il mondo del calcio non è più il mio mondo’ aveva concluso Moggi. Una bestemmia, ovviamente. Il mondo del calcio lo aveva espulso per manifesta superiorità, ma non avrebbe mai potuto farne a meno. E ancora adesso Moggi fa calcio, seppure in veste diversa; e nemmeno la Juve ha potuto farne a meno. Perché se la Società tiene in caldo le speranze di una revisione di Calciopoli, può farlo non certo grazie a prove cercate e rintracciate da chi disse, in quel 7 maggio 2006, ‘siamo vicini alla squadra e all’allenatore’, ma grazie a quelle disseppellite con certosina pazienza e con mezzi personali da Luciano Moggi, supportato da un valido staff: perché lui i suoi uomini li sa scegliere bene. Cosa che non seppe fare la proprietà che, liquidati in fretta e furia squadra e allenatore (il nuovo presidente Giovanni Cobolli Gigli aveva probanti esperienze nel suo curriculum professionale), inaugurò un periodo ‘simpatico’, votato all’espiazione (di che cosa devono ancora spiegarcelo): i tifosi cercavano invano tracce della Vecchia Signora e dei suoi ultimi due scudetti; e in fondo furono proprio i tifosi e Luciano Moggi i soli a tener vivo in quegli anni bui il ricordo della Juventus, prendendosi di tutto: rancorosi, rompiscatole e una tutta una serie di contumelie che però nulla hanno potuto contro il loro amore per la maglia e la verità.
E venne il momento in cui l’Araba Fenice rinacque dalle proprie ceneri, piano piano, faticosamente: la Juventus, tornata nelle mani di un Agnelli, Andrea, il figlio del Dottore, iniziò la lenta risalita, avviandosi a ritornare verso quei livelli di eccellenza che avevano contraddistinto la Juventus della Triade.
Naturalmente smise di colpo di essere simpatica: anzi, ritornò quello che era prima, sempre più odiata man mano che diventava sempre più vincente. E quando si fece chiaro che Andrea stava facendo sul serio, circondandosi da vincenti col dna juventino (un mix letale per gli avversari) come Antonio Conte, il capitano di tante battaglie, e Pavel Nedved, colui che fece il gran rifiuto all’Inter, allora l’assalto mediatico e l’ostilità dei poteri forti, alimentati dall’invidia e da una sostanziale impotenza, ripresero vigore e virulenza. E il fatto che al primo vero anno di Andrea, quello col ‘suo’staff , la Juventus abbia vinto lo scudetto da imbattuta, col suo stadio proprietà, li ha resi addirittura furiosi. Ma come si permette? E er gò di Muntari? Insomma, un déjà vu penoso.
Iniziò la rincorsa allo stadio di proprietà ma chi non ha idee deve attaccarsi a qualche leggina di comodo; almeno come alibi: e sappiamo tutti che in questa povera Italia fare una legge richiede tempi biblici, non compatibili con l’evoluzione della realtà; ammesso che sarebbe bastato. E a tutt’oggi l’unico stadio di proprietà è quello della Juventus, in un panorama di impianti fatiscenti, il cui unico vanto sembra al momento quello di ammantarsi di striscioni che insultano le vittime dell’Heysel.
Ma bisognava togliere a questa Juve le sue armi: c’era un Conte di troppo. Lo strumento fu Scommessopoli, qualcosa che evidentemente non è così importante per la giustizia sportiva, visto che le mele marce, avvelenate dal morso degli ‘Zingari’, hanno avuto solo qualche buffetto e piano piano, pentite, si avviano a rientrare nei ranghi del calcio: Micolucci è già di nuovo in campo. Che c’entrava Conte? Nulla, ma tra un Pippo a orologeria e un po’ di sofismi linguistici cavalcati dai pennivendoli e acchiappati al volo dalla giustizia domestica (era più plausibile che sapesse piuttosto che non sapesse) è stato rinchiuso in piccionaia per la prima parte del torneo: quasi un ammonimento, perché qualcosa si può sempre tentare: d’altronde, dopo Farsopoli tutto appare possibile. Nel frattempo er gò di Muntari, accoppiatosi con la Supercoppa di Pechino, ha generato er gò di Bergessio.
Tuttavia Agnelli non si è fatto intimidire: le lotte da pollaio non gli interessano. Non ha paura però di difendere a testa alta, fuori dai patrii confini, davanti a platee qualificate, l’operato della sua società, il presente e la storia, denunciando a chiare lettere che la condanna di Conte era ingiustificabile e che Calciopoli era solo fumo, visto che un tribunale dello Stato ha dichiarato che quel campionato 2004-05 era assolutamente regolare. Ha tolto dalla maglia le stelle, perché Calciopoli ha cambiato la storia del calcio italiano, la cui vicenda si è fermata in quel 2006, quando uno scudetto evaporò e l’altro divenne di cartone. Andrea non ha rinunciato al pensiero di recuperare il maltolto ma, coniugando il cuore del tifoso col raziocinio del dirigente, ci va con i piedi di piombo, perché l’art. 39 deve usarlo a colpo sicuro; e intanto chiede i danni, un 444 milioni di euro; non sembrino una cifra spropositata: più il tempo passa, più i danni subiti dalla Juventus, al di là di quelli evidenziati da bilanci grondanti lacrime e sangue, risaltano netti dalle analisi che mostrano quanto la Juve abbia perso, nei confronti dei competitors italiani ed europei, in termini di mancati guadagni.
In Lega ha cercato di portare una ventata nuova, facendo prevalere una visione generale orientata al miglioramento e ad un futuro possibile, ma ovviamente non ha trovato seguito, nel mondo del nostro calcio, fermo al feudalesimo, con la sua spartizione di poterucoli e le sue faide interne. Non c’è da stupirsene, in Italia funziona così, praticamente ovunque, una mentalità che non muore; uccide, piuttosto.
Ma al momento l’unica arma di cui i suoi avversari dispongono è quella della calunnia: quasi giornalmente qualcuno cerca di ricordare all’immaginario popolare la fola di Farsopoli, versione Moggiopoli, perché Facchetti appartiene all’agiografia e il Milan non ha mai avuto televisioni: buon ultimo in ordine di tempo il presidente del Napoli De Laurentiis: “La Juve è una grandissima squadra, ma ha passato anni in cui è arrivata settima o ha vinto in maniera non proprio diretta, come ha spiegato Calciopoli". Ecco, si è prenotato per il prossimo scudetto di celluloide, copione scritto alla Filmauro. Peccato che il campo, quello che dice sempre la verità, racconti un’altra storia. Ma i problemi del San Paolo forse lo costringono al silenzio.
E poi c’è l’intimidazione: in trasferta la Juve è accolta a sassi e bastonate; i vetri infranti/scheggiati a Napoli e Bologna raccontano una violenza che non ha scusanti; ma non interessano, sfuggono, sono solo semplici monellerie; anche se certe immagini ricordano più quelle di un paese in guerra che di una festa di calcio, come qualsiasi partita dovrebbe essere.
La Vecchia Signora però tira dritto, vive nel presente e si proietta al futuro, con una dirigenza politicamente moderna e matura: certo, un Moggi manca, perché Marotta del Direttore per eccellenza ha dimostrato di possedere solo l’iniziale; ma un Moggi, bisogna dirlo, in circolazione non esiste più. Ecco perché Farsopoli è stata il delitto perfetto.
Twitter: @carmenvanetti1
L'eterna colpa della Juve: essere i più forti
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- By Angelo Ribelle