Il presidente della FIGC ha correttamente individuato, a mio parere, come causa dei problemi dello scarso rendimento delle Nazionali (maggiore e U21), la scarsa protezione che il calcio italiano riserva alla tutela dei vivai e dei calciatori italiani, più in generale. Peccato però che il presidente della FIGC sia appunto lui, e non io. La nostra golden generation, a differenza di quella inglese, ha vinto quello che doveva vincere: il Mondiale. Cresciuti agli albori dell'applicazione della Bosman, la nostra generazione di nati tra il '76 e il '79 (Nesta, Totti, Toni, Zambrotta, Buffon, Gattuso, Pirlo), ha decisamente lasciato il segno in campo internazionale; e se è vero che Buffon, Nesta, Totti e Pirlo ci si nasce (bisogna anche avere la fortuna di non farsi rovinare dall'Inter), è anche vero che Zambrotta e Gattuso ci si diventa, e possibilmente giocando in società come Milan e Juve. Tra i giocatori nati dopo il 1980, ovverosia sotto i trent'anni (non 25, ma 30!), i giocatori di livello internazionale oggi sono, a esser generosi, due: De Rossi (83) e Chiellini (84). Tra i giocatori sotto i 25, per ora, si intravede quel tipo di potenziale forse nel solo Balotelli (90). Si può ancora lavorare, però, su questi giovani per non ripetere il pessimo esito della nidiata del quinquennio precedente.
La nostra golden generation è diventata infatti grande quando la sentenza Bosman, fresca di Corte Europea, non aveva ancora ridotto la maggior parte dei campionati europei a semplici serbatoi per quelli più grandi, e la concorrenza sul lavoro era dunque minore, le naturalizzazioni facili e le miriadi di doppi passaporti spagnoli e portoghesi erano allora al loro inizio. La generazione successiva è stata invece semplicemente sovrastata da tutto questo. Il confronto con gli altri grandi paesi: i giocatori inglesi hanno, nei fatti, sofferto più dei nostri la concorrenza estera, gli spagnoli invece sono stati tutelati sostanzialemnte dalle politiche dei due loro maggiori club, Barça e Real, similmente a quanto prima di Calciopoli facevano Juve e Milan. Il modello tedesco è invece fondato su basi totalmente differenti ma, va anche detto, è assai meno remunerativo quanto a competitività dei club ai grandi livelli.
Che fare dunque, per trovare la giusta combinazione tra crescita dei giocatori e competitività dei club? Un piccolo consiglio: applicare le regole UEFA, anzitutto. Tali regole prevedono l'iscrizione in rosa di almeno 8 giocatori locali (ovverosia che tra i 15 e i 21 anni, abbiano giocato per almeno tre anni nella Federazione nazionale) su una lista di 25 giocatori. Non certo una regola stringente o illiberale: sono ben 17 i giocatori "non locali" utilizzabili. Tra questi 8 poi, almeno 4 devono essere prodotti del vivaio (almeno tre stagioni tra i 15 e i 21 nella squadra di appartenenza). Fin qui tutto bene, a questa regola è stata data attuazione anche in Italia.
Il punto, però, sta in cosa succede se le rose sono più ampie: una regola davvero stringente imporrebbe che ogni giocatore in più aggiunto alla rosa debba essere locale, ma il rapporto di un locale ogni due non locali (8 a 17) - il rapporto numerico suggerito dalla norma - dovrebbe essere quanto meno rispettato. La forbice FIGC è invece ancora molto ampia: un giocatore locale ogni quattro, ben il doppio, così che per una rosa fino a 30 giocatori, i giocatori "locali" da inserire in rosa sono solamente 9.
E' così ovvio che, con una rosa di 21 giocatori "non locali", i 9 residui possono tranquillamente essere giocatori della Primavera, che mai verranno utilizzati, messi lì insomma solo per far numero. Si prenda il caso dell'Inter, squadra straniera per eccellenza: la stagione scorsa ha impiegato con continuità tra i suoi 9 giocatori locali, i soli Muntari, Pandev (entrambi stranieri) e Balotelli. Qualche sparuta presenza per Materazzi e Santon. Nulla per Toldo, Orlandoni, Belec (ben 3 portieri!) e Donati. Si parla dell'Inter che è la più straniera, ma tutto sommato, data l'assoluta insussistenza delle regole, si può ben dire si sia moderata: si può infatti arrivare finanche a 10 su 35 infatti, o a 11 su 40. In pratica una rosa composta di soli stranieri, e 10 Primavera.
I prodotti del vivaio devono poi essere sempre solo 4: nel caso dell'Inter della stagione passata Balotelli, Santon, Belec e appunto Orlandoni, una carriera passata nella mediocrità della serie B, ma la grande fortuna di essere cresciuto nel vivaio dell'Inter a fine anni '80. Una fortuna che l'ha reso a 39 anni un giocatore indispensabile all'Inter, nonostante le 5 presenze in 5 anni.
Notizia di questi giorni è che anche quest'anno il contratto di Orlandoni è stato rinnovato nonostante, con il tagliando del terzo anno in nerazzurro, diventino "eleggibili" anche Khrin e Donati, e nonostante gli acquisti di altri "locali": Mariga in gennaio e il portiere Castellazzi a giugno. Perché l'Inter sarà anche una squadra straniera, ma i portieri di riserva sono sempre rigorosamente italiani. Ad occhio e croce, considerato il rinnovo ad Orlandoni, immaginiamo il taglio di qualche "locale" già presente: probabilmente Toldo, qualche ragazzo italiano mandato altrove, e mettiamo zizzania... magari Balotelli? Chi lo sa. Certo è che è anche per i rinnovi degli Orlandoni (ma, per carità, anche dei Chimenti e via dicendo), che passano le scarse possibilità di impiego per tanti giovani italiani.
Il presidente Abete smetta perciò di lamentarsi sulla questione dei vivai: ha nel suo potere la possibilità di migliorare le cose, implementando davvero una regola pensata a questo scopo, e che per tutta la sua reggenza ha invece annacquato. Per carità: il suo effetto reale sarebbe naturalmente limitato, ma l'effetto simbolico invece forte.
Non può essere la stessa Federazione, infatti, a fornire la scappatoia ai club per non schierare giocatori italiani.
Sarebbe poco, ma sarebbe almeno qualcosa: la Federazione che detta la linea, invece di farsela dettare.
Di più, è targata Abete la modifica della regola che, nel 2008, ha portato da uno solo (per uno che esce) a due (stessa ratio) i giocatori extracomunitari tesserabili. Solo due anni dopo, si pianifica già la marcia indietro.
La questione dei bilanci poi: chi vive sopra le proprie possibilità si approvvigiona al mercato estero, e condiziona tutti gli altri.
Poi, per carità, si può anche decidere che della Nazionale non ce ne frega niente, e mettere in mano tutto alla Lega, sul modello Premier League, come chiede Zamparini. Il problema della giustizia sportiva, comunque, rimane.
Chi chiede le dimissioni di Abete per i risultati della Nazionale riabilita di fatto, pur ostinandosi a negarlo, il sistema di Calciopoli. E ci sta anche bene, naturalmente. Il motivo per cui noi chiediamo le sue dimissioni però attiene non al fallimento tecnico della Nazionale, ma proprio al fallimento tecnico del nuovo codice di giustizia sportiva e del sistema giuridico-sportivo, più in generale.
La giustizia è sicuramente più importante di un'altra Coppa del Mondo. Attendendo quel giudice, però, Abete non prenda in giro nessuno: il presidente dei vivai sarà sicuramente il prossimo.
Abete e la politica di Orlandoni
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