I commentatori della domenica sono rimasti sconcertati: hanno sempre detto che Berlusconi e Moratti erano dei grandi mecenati pronti a mettere qualunque cifra per sistemare il bilancio e, all'improvviso, si ritrovano a dover scrivere di Kakà che va al Real e di Moratti che dice che bisogna vendere. E così vengono fuori ipotesi azzardate e contraddittorie: chi dice che la colpa è dei giocatori e dei procuratori e chi scrive che è giusto così per una questione di moralità; chi dice che per il nostro campionato sono tempi grami e chi invece sostiene che sull'orlo del baratro sono le squadre spagnole e quelle inglesi; l'intellettuale nerazzurro (Severgnini) azzarda che l'Inter vincerà la Champions senza Ibra mentre Teo Teocoli, più seriamente, minaccia di non andare più allo stadio.
La confusione è tanta. Senza la pretesa di fare chiarezza, volevamo sviluppare il tema del mecenatismo alla milanese, quello di Berlusconi e Moratti, quello che secondo il Corriere e la Gazzetta voleva dire staccare l'assegno e sanare il bilancio (50, 100 o 200 milioni fa lo stesso, una firma e tutto è a posto; così l'hanno sempre raccontata per i lettori del bar sport). Abbiamo già scritto e dimostrato, e lo ribadiamo, che si tratta di una balla colossale, perché da quando le società sportive sono state equiparate a quelle con fini di lucro, tutti i presidenti hanno fatto di tutto per lucrare il più possibile mettendoci, quanto a soldi veri, il minimo indispensabile. Non staccano assegni, ma si affidano ai consulenti d'elusione fiscale, va bene la passione, ma è sempre meglio unire l'utile al dilettevole; non sono più i ricchi scemi di una volta oggi hanno la holding e sotto la squadra ci sono le controllate (per il marchio, l'edilizia, il merchandising e l'entertainment) dove mettere figli e conoscenti.
Succede così che oggi la proprietà del Milan fa capo alla Fininvest, la finanziaria della famiglia presieduta da Marina Berlusconi; il bilancio del Milan, con quelli di Mediaset, Mondadori e gli altri gioielli di famiglia, finisce in quello generale della Fininvest, dove non è la passione per il calcio a farla da padrone, ma la logica dei costi/benefici, del bilancio consolidato e dei parametri da esibire non alla Covisoc ma agli esperti di Borsa. Così mentre le gazzette sportive s'imbrodavano col mecenatismo di Berlusconi, sui giornali economici si leggeva di una crescente insofferenza della presidentessa (della Fininvest) per i risultati del Milan, non per i campionati che non si riusciva a vincere, ma per i passivi di bilancio che la finanziaria doveva pareggiare e finivano per appesantirle i parametri.
La configurazione dell'Inter è diversa: i fratelli Moratti condividono tramite la finanziaria di famiglia le galline dalle uova d'oro tipo la Saras, mentre la frittata dell'Inter il fratello più assennato l'ha lasciata a Massimo Moratti, che il mecenatismo lo fa, quindi, in proprio. E lui lo fa tramite i suoi registi finanziari e consulenti fiscali che, anno dopo anno, cercano anche loro di minimizzare i costi e lucrare dove è possibile; ecco allora, come abbiamo documentato nella sezione Bilanciopoli, la Inter Brand per il giochino del marchio e la Internazionale Holding per motivi fiscali; ecco la Inter Capital che nasce e muore dopo pochi mesi e lascia in eredità una plusvalenza (finta) di 150 milioni. Nell'Inter Massimo Moratti ha sicuramente messo anche dei gran soldi veri ma, in misura ancora maggiore, per sanare i bilanci i suoi consulenti hanno inventato le più svariate plusvalenze fittizie sulle quali i corrieri e le gazzette (con la Covisoc e la giustizia sportiva) hanno, diciamo candidamente, chiuso gli occhi, si sono tappati le orecchie e non hanno detto una parola.
Il discorso sulle plusvalenze farlocche è molto importante per capire appieno il mecenatismo alla milanese. Perché è vero che di artifici contabili sono pieni i bilanci di quasi tutte le società, ma nel caso delle milanesi girano cifre davvero impressionanti (direttamente proporzionali alle balle dei soldi messi da Berlusconi e Moratti di tasca loro): all'epoca della porcata della legge spalmaperdite, Inter e Milan aggiustarono i bilanci rispettivamente per 319 e 242 milioni di euro, nel giochino del marchio ballavano per entrambe cifre vicine ai 150 milioni, altri 150 con Inter Capital; il tutto senza dimenticare che Inter e Milan erano un tempo abituate a ritrovarsi a fine campionato per fare finta di scambiarsi quattro-cinque Primavera per decine e decine di milioni (di finte plusvalenze).
Era, insomma, il mecenatismo alla milanese, un po' di arrosto con tanto fumo: per un aumento di capitale da 50 milioni magari c'era una rivalutazione della holding di 150; le perdite (lorde) del calcio finivano nel calderone della finanziaria di famiglia o magari nella dichiarazione dei redditi abbattendo le tasse da pagare. Se consideriamo a fondo gli aspetti fiscali, era anche una specie di pacchia, perché poteva succedere (e si può dimostrare che è successo) che grazie alle perdite della squadra un "mecenate" poteva anche finire per guadagnarci. Una pacchia che non poteva durare in eterno, e infatti lo scorso anno si poteva già intuire che ci sarebbero stati i mal di pancia, quelli che son venuti fuori adesso per Ibra e per Kakà.
Il fatto è che lo scorso anno è scoppiata la crisi più grave dal secondo dopoguerra, che ha fatto sballare tutti i parametri di Fininvest, di Saras e di tutte le holding che contengono le società di calcio; contemporaneamente l'Uefa ha deciso di intervenire direttamente nel controllo dei bilanci con l'intenzione di bocciare quelli con giochini strani, tipo quelli che dicevamo prima. E così i limiti del mecenatismo alla milanese sono stati messi a nudo: la Fininvest, a causa della crisi, ha bisogno della plusvalenza di Kakà, visto che Mediaset di utili ne produce pochi; anche alla Saras gli utili sono in picchiata, le cedole del mecenate petroliere potrebbero diminuire del 70% e i suoi consulenti hanno poco da eludere.
Mettiamoci anche Platini che vuole controllare i bilanci ed eliminare la vergogna dei debiti e si ottiene che i grandi mecenati di Milano si sono trovati davanti ad un bivio: vendere a dispetto di Severgnini e Teocoli oppure mettere sul banco 200-250 milioni (nel caso di Moratti per sanare il passivo 2008-09 e spesare la campagna acquisti) o litigare con la figlia (nel caso di Berlusconi).
Quale scelta hanno fatto l'abbiamo visto e lo stiamo vedendo in questi giorni; tutto sarà più chiaro a fine giugno ma già adesso si può dire che il mecenatismo alla milanese era un po' finto, come le plusvalenze. Sui giornali, dicevamo, si può leggere di tutto; paradossale lo sconcerto di Mario Sconcerti che sul Corsera prima fa il pistolotto su "Il calcio nuovo dei campioni-azienda" e se la prende con i giocatori e la loro voglia di guadagnare (viene da pensare che hanno fatto scuola le società con i loro fini di lucro...) e poi sette giorni dopo se la prende con se stesso perché il pistolotto settimanale stavolta è "Non fuggono per soldi, ma per potersi divertire".
A proposito dello sconcerto del Corsera, una citazione particolare la merita Fabio Monti che, coerente fino in fondo, dei dettagli del bilancio dell'Inter non parla mai ma, in compenso, nelle ultime settimane un giorno sì e l'altro pure spiega ai lettori del più importante quotidiano d'Italia perché Ibra non può valere meno di Kakà e perché alla fine la spunterà Moratti che vuole Eto'o e 50 milioni. In particolare segnaliamo la performance dell'11 giugno, quando Fabio Monti dice di non dare retta a El Mundo Deportivo (che parla di un conguaglio di 10 milioni) perché è un giornale "da sempre vicino al Barca" e che, se non saranno 50 milioni, Ibra resta all'Inter e "non è la fine del mondo perché i conti sono (o saranno) a posto".
Abbiamo l'impressione che in giro sappiano tutti che Fabio Monti è da sempre vicino all'Inter, fin dalla famosa colletta per festeggiare la sconfitta della Juve ad Atene, ma a parte questo ci sentiamo di invitare il collega Monti ad un po' di prudenza sul fatto che quest'anno Moratti metta il famoso assegno, e il perché noi l'abbiamo spiegato; se lui sui bilanci e gli assegni ha dati diversi, saremo felici di leggerli, gli raccomandiamo solo di stare attento alla holding e di non dimenticarsi le controllate, insomma di ragionare (se non è troppo) sul consolidato (come vuole la Covisoc).
Lasciando comunque da parte i tanti fabiomonti che ci sono nelle redazioni milanesi, torniamo alla serietà dell'intervento di Teo Teocoli, che ha motivato la sua minaccia di non andare più a S. Siro scrivendo che Berlusconi è mecenate e ricchissimo e quindi la soluzione c'era: Berlusconi doveva vendere Villa Certosa (vulcano compreso visto che è finto, aggiungiamo noi), tenere Kakà e, anzi, comprare Fernando Torres. In effetti poteva (o doveva?) finire così se il mecenatismo alla milanese era davvero quello che ci facevano leggere al bar sport, con Berlusconi e Moratti che chiedevano "Quant'è?" e firmavano l'assegno.
Secondo noi così non era. E mentre Severgnini prova a tirarsi su il morale con la barzelletta che l'Inter vincerà la Champions per fare un dispetto a Ibra (e magari a Maicon), a Teocoli tocca leggere di Kakà che va a Madrid e di Berlusconi che compra altre ville in giro per l'Italia...
Il declino del mecenatismo alla milanese
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