Nell’estate del 1999, con l’acquisto dal Parma per 52 miliardi dell’argentino Juan Sebastian Veron, la Lazio raggiunge il tetto massimo di extracomunitari tesserabili (5). Nelle sue file infatti già militano l’argentino Salas, il ceco Nedved, il serbo Stankovic e il croato Boksic. Tuttavia, non vi è solo un limite nei tesseramenti: l’articolo 40 impone anche un massimo di tre extracomunitari schierabili, tra campo e panchina, per ogni partita. In questo modo, la Lazio è costretta domenicalmente a mandare in tribuna due dei suoi cinque calciatori non comunitari.
Ma è un problema al quale la Lazio pensa di ovviare facilmente: molti calciatori argentini sono stati naturalizzati grazie alla presenza nel loro albero genealogico di antenati del Bel Paese. D’altra parte, lo stesso Veron aveva fatto notare di avere effettivamente un lontanissimo parente italiano, o almeno quello era ciò che sua madre gli aveva detto. È per questo che «subito dopo l’acquisto del giocatore dal Parma, lo staff del presidente Sergio Cragnotti [inizia] a battere Buenos Aires alla ricerca di uno studio legale specializzato in queste ricerche. Lo trovò e in poche settimane trovò la possibilità di naturalizzare Veron, facendo così spazio nella rosa a nuovi extracomunitari». (Repubblica, 30 marzo 2000)
Lo studio in questione si chiama “Alvarez” e al suo interno ci lavora come traduttrice una volonterosa signora italiana, Maria Elena Tedaldi, esperta nella ricerca di antenati europei per i cittadini sudamericani. La Tedaldi scopre che Veron ha un antenato calabrese, tale Giuseppe Antonio Porcella, nato a Fagnano Calabro (Cosenza) nel 1870 e poi emigrato in Argentina, dove ha messo al mondo il bisnonno del calciatore. I documenti di Porcella giungono a Roma: tra questi ci sono anche certificati di matrimonio, morte e nascita dei suoi figli, a testimonianza della validità della discendenza. Il 9 settembre 1999, il comune di Roma concede il passaporto italiano al calciatore che può scendere liberamente in campo.
Sembra tutto sistemato finché nel marzo del 2000 la Farnesina riceve una denuncia della sua sede diplomatica di La Plata, in Argentina: ci sarebbero delle irregolarità nei documenti che hanno consentito a Veron di conseguire lo status di comunitario. Il 6 aprile 2000 la magistratura apre ufficialmente un’inchiesta giudiziaria, chiedendo l’immediata verifica dei documenti. La scoperta è quasi ovvia: l’antenato di Veron non è Giuseppe Antonio Porcella, ma Ireneo Portela, argentinissimo, al quale è stato cambiato il nome e italianizzato il cognome. Tutti i certificati allegati e consegnati a Roma sono contraffatti. È il caos più completo: Cragnotti dice di essere stato truffato, Felice Pulici, dirigente laziale che ha tenuto i contatti con l’Argentina, accusa lo studio Alvarez e i procuratori di Veron che, da par loro, dicono di non saperne nulla. Il pm di Roma, Silverio Piro, decide a quel punto di volare in Argentina per interrogare la misteriosa signora Tedaldi e ne ritorna con alcune sconcertanti rivelazioni: Veron aveva sì una discendenza italiana ma dal ramo materno, di nome Ratti. Per una legge argentina del 1948 la pratica sarebbe stata più lenta e avrebbe richiesto circa un anno e mezzo. Troppo per le esigenze della Lazio, desiderosa di disporre quanto prima di un calciatore comunitario. Secondo la Tedaldi, la Lazio avrebbe agito di testa propria, decidendo di inventarsi una linea paterna che avrebbe consentito di abbreviare considerevolmente i tempi burocratici:
Se la Lazio avesse fatto quello che gli avevo detto di fare io, adesso Veron sarebbe italiano regolarmente. E invece sono andati a colpo sicuro in quel paesino della Calabria (Fagnano Calabro, ndr): evidentemente avevano buoni contatti, no? Così come Pulici, quando è venuto a Buenos Aires è stato ricevuto subito dal console. È stato tutto facile per lui, le altre persone che vogliono i documenti per diventare italiani aspettano 56 mesi e magari dormono davanti alla porta del consolato.” “Prima dell’interrogatorio di Piro, mi aveva contattato quell’avvocato argentino della Lazio (Bonino Mendes, ndr) che voleva convincermi a fare certe dichiarazioni. Io ho seguito soltanto la pratica di naturalizzazione per parte di madre e per quella via, forse, Veron sarebbe potuto diventare italiano, ma dopo molti mesi. Quando l’ho detto al dirigente Felice Pulici, lui ha preso in mano la pratica e, improvvisamente, il trisavolo di Veron è diventato l’italiano Giuseppe Antonio Porcella, che poi è stato falsificato. Vuol dire che la Lazio mi ha mandato lì per incastrarmi. (Repubblica, 14 e 27 febbraio 2001)
Nella sua deposizione davanti al pm Piro, Veron professa tutta la sua innocenza. E c’è da credergli,visto lo sconcertante quadro che va lentamente formandosi:
Pm Piro: Che utilità ha avuto per lei la cittadinanza italiana?
Veron: La cittadinanza italiana per me non significa più di tanto, non ha valore perché in nessun momento ha influito sul compenso corrispostomi dalla Lazio. Poi ho saputo da mia madre che avevo un antenato italiano e l' ho detto alla società che mi aveva fatto richiesta per farmi il passaporto.
Pm: Chi, della società, si è interessato per il suo cambio di cittadinanza?
Veron: La società lo ha chiesto a mia madre con l' intermediazione del mio procuratore. Non so dire chi con esattezza. E non ricordo quando. Mia mamma mi aveva detto questa cosa: c' era un trisavolo che era italiano e c' era la possibilità di avere il passaporto. La società è una cosa a parte. Questo è un discorso che mia madre mi fece per farmi entrare più facilmente in un paese comunitario.
Pm: È andato di persona al consolato di La Plata (si tratta del primo tentativo, fallito, di ricostruire la discendenza italiana, ndr)?
Veron: Sì, con mio padre. E prima non avevo avuto alcun contatto con Ilario Camaiani (titolare dello studio Alvarez con la Tedaldi, ndr) che ho conosciuto solo in quel momento al Consolato di La Plata. Non so cosa si sono detti il funzionario del consolato e il Camaiani. La Tedaldi l' ho conosciuta solo a Roma il giorno in cui andai in Comune per ritirare la mia cittadinanza (9 settembre 1999, ndr). Lì trovai Pulici. Sono sicuro che era la Tedaldi perché siamo andati insieme in taxi dall' hotel Cavalieri Hilton, dove io abitavo da un mese, al comune.
Pm: Fra i suoi antenati c' è qualcuno che si chiama Ratti?
Veron: Non so se tra i miei antenati c' è qualcuno che si chiama Ratti.
Pm: Ha qualche parente di nome Ratti Viamonte Lidia (si tratta della giovane donna che con questo nome nel luglio 1999 piomba nell' ufficio di Orsomarso nel comune di Fagnano Castello e, disperata e affranta, chiede il rilascio del certificato di nascita del bisnonno Giuseppe Antonio Porcella per fare avere la pensione alla povera mamma rimasta in Argentina. In realtà quella donna era Maria Elena Tedaldi che, secondo l' accusa, proseguiva nella sua fabbricazione di falsi documenti, ndr)?
Veron: Non ho nessuna parente con questo nome.
Pm: Qualche suo familiare è stato in Italia di recente, magari a Fagnano Castello?
Veron: Escludo.
Pm: Ha un antenato di nome Julian o Filadelfia?
Veron: Non lo so.
Pm: Ricorda il nome di qualche suo antenato?
Veron: Ireneo, che è stato il mio nonno materno, cioè il papà di mia mamma Maria Cecilia Portela Goyena, ed è morto quando io avevo 15 o 16 anni. Ireneo era anche il nome di un altro mio antenato.
Pm: Mai sentito il nome di Giuseppe Antonio Porcella?
Veron: Mai. Quando mia madre mi parlò di questo avo italiano grazie al quale avrei potuto ottenere il passaporto italiano, non mi riferì il nome né quando era nato.
Pm: Quando comincia il suo rapporto con Mascardi? Veron: Nel 1995. Non l' ho scelto io, neppure mio padre. È stato lui a scegliere me.
Pm: Sa come hanno acquisito la cittadinanza i suoi connazionali Chamot, Almeyda, Sensini, Simeone?
Veron: Non ne ho mai parlato.
Pm: Chi ha pagato la sua pratica di cittadinanza?
Veron: Non lo so. Io no di certo. Mascardi neppure.
Si scopre che la signora che andò a Fagnano Calabro a ritirare i documenti di Giuseppe Antonio Porcella altri non era che la Tedaldi, sotto il falso nome di Ratti Viamonte Lidia. Ovvero la donna che, grazie ad un documento falsificato, si era spacciata per la pronipote in cerca di un attestato che potesse far avere la pensione alla madre. Una storia incredibile che si complica ancora di più con l’entrata in scena di Pulici, visto in compagnia della Tedaldi proprio da Veron:
Pm Piro: come ha conosciuto la Tedaldi?
Pulici: in Argentina, per un incontro di calcio. Il suo indirizzo mi fu dato da Hidalgo (procuratore di Veron, nda) che mi aveva già inviato in Italia la documentazione iniziale di questa pratica di acquisto della cittadinanza per linea paterna. Della pratica che Veron aveva portato avanti in linea materna non ne so nulla. Solo dopo ho saputo che ne che avevano fatto richiesta in tal senso al consolato di La Plata. Un impiegato del comune di Roma mi disse che quella pratica non poteva andare avanti per via di una legge del 1948 e che potevamo provare per linea paterna. Io dissi tutto questo a Hidalgo che dopo pochi giorni mi disse di mettermi in contatto direttamente con Elena Maria Tedaldi. Il numero lo trovai tra la vecchia documentazione. Le spiegai tutto, cioè di fare un tentativo in linea paterna.
Pm: chi era a conoscenza di tutto questo nella Lazio?
Pulici: Io avevo contatti con Governato. A lui dissi anche che la Tedaldi, in una successiva telefonata, mi aveva detto che il prezzo di tutta la pratica era di 110 mila dollari. Dissi che erano troppi ma la Tedaldi mi disse che erano comprese le spese per alcuni viaggi e spostamenti e che il prezzo non poteva essere ritoccato.
Pm: Cosa disse la società a proposito del prezzo?
Pulici: mi disse che dovevamo accettare quel prezzo. Non so dire se lo fece autonomamente o consultandosi con il presidente.
Pulici quindi ottiene dalla società il via libera a pagare la somma di 220 milioni di lire per una pratica che, normalmente, ha un costo di 4 mila dollari. Certo, l’idea di cambiare il nome dell’antenato è farina del sacco della Tedaldi ma Pulici, col beneplacito di Governato, è volato immediatamente in Argentina con il fine di poter disporre da subito di Veron comunitario. Marcello Petrelli, avvocato del calciatore, fa poi notare che i documenti sono stati spediti dalla Calabria l’8 settembre con posta ordinaria e sono giunti a Roma il giorno dopo, dove immediatamente è stato concesso il passaporto, materialmente ritirato da Pulici e dalla Tedaldi. Come hanno fatto i documenti ad arrivare in un solo giorno? Chi si è interessato e si è mobilitato per portarli a Roma in fretta e furia?
A febbraio 2001 (un anno dopo lo scoppio del caso) la giustizia sportiva non si è ancora mossa, forse spaventata dalle minacce di Cragnotti. Il finanziere, con una coda di paglia chilometrica, annuncia azioni legali contro la Federcalcio nel caso in cui si proceda a giudizio prima della certificazione di falso da parte della giustizia ordinaria. Nessuno ha voglia di rischiare grane e solo Campana, presidente dell’Assocalciatori, esprime tutta la sua perplessità: «Nel caso Ferrigno la magistratura sportiva è stata velocissima, nel caso Veron aspetta il giudizio di quella ordinaria» (Repubblica, 5 febbraio 2001)
Ai primi di marzo del 2001 il gip di Roma, Claudio Tortora, rinvia finalmente a giudizio Sergio Cragnotti, Nello Governato, Felice Pulici, i procuratori Gustavo Mascardi e Francisco Hidalgo, i dipendenti dello studio Alvarez, Maria Elena Tedaldi e Ilario Camaiani, nonché Gianfranco Orsomarso, che ha redatto il certificato anagrafico del finto avo a Fagnano Castello.
È il via libera per la giustizia sportiva: il 5 marzo 2001, arrivano i deferimenti del Procuratore Federale Carlo Porceddu: la Lazio è chiamata a rispondere della violazione dell’art.6 (illecito sportivo), commi 1 e 2, per responsabilità diretta ed oggettiva: a rischio lo scudetto conquistato grazie all’acqua di Perugia. La Lazio ha schierato irregolarmente Veron per 19 partite e il regolamento impone la sconfitta a tavolino e la penalizzazione di un punto per ogni partita in cui sia stato presente un giocatore illecitamente tesserato. L’accusa è grave e comporterebbe in aggiunta la retrocessione del club. Ma lo scoppio di di “Passaportopoli”, sei mesi prima, aveva già sistemato le cose. In seguito alla scoperta di numerose documentazioni fasulle riguardanti i calciatori, molte squadre si erano trovate coinvolte nello scandalo (Milan, Sampdoria, Inter, Roma, Udinese e Vicenza) e, fin da subito, era stato chiesto alla Federcalcio di accorpare tutti i processi in uno solo. In questo modo si sarebbe risparmiato tempo ma le pene sarebbero state per tutti più lievi, dal momento che era impensabile la retrocessione o la forte penalizzazione di quattro grandi della serie A come le due milanesi e le due romane.
A completare l’opera di salvataggio delle squadre implicate arriva poi (3 maggio 2001) la nuova norma che abolisce il limite di calciatori extracomunitari schierabili in campo. Qualcuno capisce che comincia a tirare aria di colpo di spugna e si prepara alla classica soluzione all’italiana: «e chi ha barato coi passaporti falsi? Dovrà pagare. Ma con questa norma, dichiarata illegittima, le sanzioni saranno più blande. Qualche minisqualifica da scontare magari in estate. Quando il campionato è fermo» (Repubblica, 5 maggio 2001). Il giorno prima Cragnotti, sentendo ancora nuvole pesanti addensarsi sulla sua testa, aveva messo le mani avanti: «A noi Veron interessava comunque, anche come extracomunitario», ma la puzza di bruciato restava fortissima.
E pensare che nei mesi precedenti i giornali si erano scatenati diffondendo allarmismo sulle sorti del nostro campionato. Fabrizio Bocca, su Repubblica del 9 febbraio 2001, crede fermamente nella stangata da parte dei giudici. Ma è solo l’anticamera della beffa:
Prepariamoci ad un terremoto in classifica, come non accadeva dai tempi del calcioscommesse, venti anni fa. Prepariamoci ai -9 e ai -12 e carichiamo le penalizzazioni: una partita adesso vale 3 punti e non 2 come nell’80. Saranno stangate e un caos totale probabilmente. Ma forse necessario per ridare credibilità ad uno sport che negli ultimi anni ha sistematicamente aggirato le regole.
Il caso Veron è scoppiato circa un anno fa: da allora nessuno della Federcalcio ha fatto niente per arrivare alla verità. Certo non c’è ancora una sentenza, ma esistono verbali. E c’è pure un ufficio indagini. I giocatori dell’Udinese Warley e Alberto sono stati bloccati alla frontiera polacca nel settembre scorso: il deferimento è arrivato solo adesso, cinque mesi dopo. E sulla spinta di un magistrato di Udine. Che ha scoperto anche il falso grossolano del passaporto di Recoba. Ma nessuno aveva controllato. Meglio, qualcuno aveva chiuso gli occhi. Nessuno si era mosso nemmeno quando in Francia si era arrivati alle squalifiche. Questo è il vero scandalo. Niente pene retroattive, la Lazio salverà il suo scudetto. Ma ora basta, da oggi si torna a parlare di responsabilità oggettiva: l’Inter e Udinese pagheranno per il solo fatto di aver schierato giocatori che non potevano stare in campo. Da oggi si torna a pagare e in maniera molto pesante. Anche per rispetto di quei “fessi” che le regole non le hanno violate.
Nel frattempo, l’allenatore della Roma Capello, parla di classifiche da riscrivere e di campionati falsati:
L’anno scorso Veron ha giocato come comunitario, adesso è tornato extracomunitario. Non vedo per quale motivo se uno ha barato deve essere assolto: chi ha sbagliato paghi. Ma noi non riusciamo a far pagare niente. Ci lamentiamo della giustizia ordinaria, ma se la giustizia sportiva non fa niente… Faccio l’esempio della Lazio ma anche dell’Inter. Sono stati penalizzati dei club che si trovavano in una posizione regolare. Analizziamo tutte le situazioni e rifacciamo la classifica. Non credo che la Juventus sarà più contenta di noi. Se fossero state applicate le regole degli altri paesi, avremmo una classifica seria e reale (Repubblica, 4 febbraio 2001)
A lui si accoda Moggi, che può finalmente togliersi un sassolino dalla scarpa: «se penso a quello che abbiamo passato noi l’anno scorso, quando ci davano dei ladri…». Cragnotti invece si infuria e chiede 64 miliardi di danni perché, a detta sua, le dichiarazioni di Capello hanno fatto scendere il titolo Lazio in Borsa del 3%. Follia.
A fine maggio, il Procuratore Federale è in procinto di emettere le richieste di condanna ma ormai alle stangate non crede più nessuno: «Porceddu chiederà penalizzazioni (da 3 a 6 punti) per i club e squalifiche (da 3 a 6 mesi) per i 14 calciatori coinvolti. Ma c’è aria di minisanzioni» (Repubblica, 9 maggio 2001). Infatti, le richieste sono una farsa: un anno di inibizione a Veron, Cragnotti, Governato e Pulici, più un ammenda di tre miliardi alla società. Ma oltre ogni rosea aspettativa vanno le sentenze della Commissione Disciplinare, presieduta da Sergio Artico, il 27 giugno 2001: tutti prosciolti, solo una multa di 2 miliardi e un anno di squalifica al povero Pulici che si era tanto dato da fare per quel passaporto (l’arbitrato del Coni ridurrà la multa a un miliardo e la squalifica di Pulici a 4 mesi, completando la farsa). Incredibile l’assoluzione di Governato nonostante si legga, nella sentenza che «fu lui ad autorizzare il Pulici ad inviare in Calabria l’osservatore Franco Nanni per prelevare i certificati rilasciati dal Comune di Fagnano Castello, così come in precedenza aveva autorizzato il viaggio di Pulici in Argentina. Il Governato, infine, riferì al proprio Presidente, affinché provvedesse alla liquidazione, l’entità indubbiamente rilevante del compenso richiesto dalla Tedaldi, senza formulare alcun rilievo al riguardo/i>». Per Cragnotti, invece, la sentenza afferma che egli non è colpevole in quanto fu solo informato del buon esito della pratica, anche se desta «[i]perplessità che abbia disposto la liquidazione di ben 110.000 dollari per un’attività che, in buona sostanza, si riduceva ad una ricerca genealogica ed anagrafica». A tarallucci e vino anche le sentenze riguardanti le rimanenti squadre coinvolte (vedere sezioni su Milan, Roma e Inter), con la sola Udinese a pagare un poco più delle altre.
Lo scudetto della Lazio è salvo, non perché la società sia innocente, ma per un cavillo legislativo delle norme federali: il comma 2 dell’articolo 19 del Codice di Giustizia Sportiva infatti recita: «L’obbligo di deferimento per la posizione irregolare di calciatori che abbiano preso parte ad una gara deve essere adempiuto entro il quindicesimo giorno dallo svolgimento della gara stessa, e comunque non oltre sette giorni dalla chiusura del campionato o del torneo cui la gara si riferisce». Insomma se schiero dei giocatori irregolarmente e non vengono scoperti entro quindici giorni la faccio franca. Se addirittura li schiero all’ultima giornata, devo aspettare solo una settimana prima di passarla liscia. Lo scudetto della Lazio non è regolare ma i giornali non se ne accorgono. Invece la Juventus perderà due titoli per fatti ancora tutti da dimostrare, accaduti due anni prima. Ritorna il monito di Orwell: la legge è uguale per tutti ma qualcuno è più uguale degli altri.
Dal punto di vista della giustizia ordinaria l’accusa è di falso, secondo l’articolo 482 del codice penale. Il rinvio a giudizio, inizialmente stabilito per il maggio 2001, slitta fino al 17 ottobre 2002, data della prima udienza. In seguito, sui giornali, si perdono le tracce del processo. Si ha solo una notizia del febbraio 2004 quando si apprende che Cragnotti, detenuto nel carcere di Regina Coeli, rifiuta di comparire in una successiva udienza. Da lì in avanti più nulla.