ConteAll'immagine del Conte triste e stranito, chiuso nel suo gabbiotto da prigioniero di una giustizia Ingiusta, se ne affianca e quasi contrappone un'altra, che ci consegna una personificazione dell'amarezza e della rabbia di una persona perbene che vede la parola sua, suffragata peraltro dalle testimonianze di altre persone credibili, annullata dalle parole di una mela marcia.

Sono state le mele marce in realtà i protagonisti di Scommessopoli, ma non nel senso che si sarebbe potuto ragionevolmente presagire, e all'inizio, quello di individui che, secondo gli 'auspici' iniziali, sarebbero stati espulsi per sempre dal mondo del calcio come portatori del virus di una delle massime forme di slealtà concepibili, vendere la propria dignità, la propria squadra, la propria maglia, il proprio sport, i sogni propri e altrui, per soldi; in fondo non erano nomi che facevano gioco: un eventuale 'Carobbio radiato', o Radiazione per Gervasoni' non avrebbe suscitato alcuna eco mediatica, non avrebbe fatto vendere copie, non avrebbe appuntato alcuna medaglia al palmarès del Procuratore Palazzi e del suo nume tutelare Abete, nell'anno preelettorale (e Carraro ci dimostrò a sufficienza che certi appuntamenti, e qua si tratta addirittura si due mostri sacri come Figc e Coni, vanno 'sterilizzati' dai microbi bianconeri). Il Conte mostro in prima pagina (omologo del Moggi del 2006) era perfetto: dava la maggior risonanza mediatica possibile alla questione (scoppiata virulentemente quasi in contemporanea alle polemiche sulla terza stella) e colpiva quella Juve che non voleva piegarsi; pur se, si potrebbe dire, in incognito, avvalendosi di un 'uomo dello schermo' (hanno solo plagiato Dante, che si inventò, secoli fa, la donna dello schermo). La Juve come società non era né poteva, nei deferimenti e nelle sentenze, essere chiamata in causa, ma veniva deprivata del tecnico che, formando un tandem dal dna bianconero col presidente Agnelli, l'aveva riportata ai vertici; non solo, c'era anche il corollario di farle passare un'estate superagitata (non dimentichiamo i casi Bonucci e Pepe, spacciati per colpevoli prima di essere riconosciuti innocenti), guastando di colpo l'atmosfera di immensa gioia per la conquista del trentesimo scudetto.

Se tutto ciò riempie di rabbia i tifosi bianconeri, si può capire quale sia lo stato d'animo di Antonio Conte: uno che si è costruito la sua carriera con scrupolo e lavoro, studio e gavetta, fino ad arrivare dove sognava: alla Juventus. E i fatti avevano dimostrato che lui e la Vecchia Signora erano fatti l'uno per l'altra, un connubio che ha esaltato le doti di entrambi, le sue di leader carismatico e il dna vincente della Juve.
Una rabbia che emerge con tutta la sua evidenza nella conferenza stampa del 23 agosto, quando un Conte davvero "allibito" manifesta tutta la sua furente indignazione per essere stato usato, lui e il suo nome, come spot del calcioscommesse: lui che non ha mai scommesso. E che è stato trainato dentro, con accuse che nulla hanno a che fare con le scommesse, da qualcuno che nelle scommesse c'era fino al collo, ma non accetta di pagarne le conseguenze. Perché a questo si riducono il pentitismo e la collaborazione con la giustizia: cercare di sminuire il proprio ruolo, le proprie responsabilità, foriere di conseguenze anche molto pesanti, sul piano penale e sportivo, introducendo nomi, nomi, tanti nomi, possibilmente pesanti (e quello di Conte era il più pesante che si potesse immaginare, perché era Conte, un vincente con la Juve di Andrea, e uno che 'non ci stava' a subire); e chi non l'ha fatto, perché semplicemente nomi non ne aveva, come Tomas Locatelli, "è stato ammazzato": nessun futuro nel mondo del calcio.

E allora Antonio Conte, supportato dai suoi avvocati, ha levato alta la sua voce carica di sdegno contro il modo di procedere e di giudicare della 'giustizia' sportiva, che lo ha condannato senza prove, dichiarandolo non credibile, quando ha affermato di non essere a conoscenza del fatto che alcuni calciatori della squadra che lui allenava (e tra questi, guarda caso, il suo 'credibile' accusatore) intrallazzavano per combinare le partite. Quando la cosa meno credibile era rappresentata proprio dalle parole del Pippo pentito: per le contraddizioni in cui cade, per le versioni che si 'aggiustano' una dopo l'altra, per le smentite che arrivano da persone e fatti reali (basta pensare al caso Mastronunzio), nonché per l'illogicità dell'intero quadro che riguarda il tecnico (non esiste spiegazione plausibile, credibile, di uno straccio di motivo per cui avrebbe dovuto prestarsi anche solo ad avallare accordi sottobanco per quelle partite: avrebbe avuto solo tutto da perdere e nulla guadagnare).
E per ritornare sulla credibilità, tutte, ma proprio tutte, eccezion fatta per Pippo Carobbio, le testimonianze delle persone che hanno avuto a che fare professionalmente con Conte hanno messo in risalto la sua spinta continua verso la vittoria, quasi un'ossessione: bisogna vincere sempre, qualunque sia la classifica; e a fine torneo possibilmente spinge di più perché, come avrebbe detto al pm Laudati nell'ultimo interrogatorio, è perfettamente consapevole che quando i traguardi sono ormai raggiunti i giocatori tendono a rilassarsi, ad avere cali di concentrazione, a 'deludere' le aspettative di uno come lui che, se non esce dal campo vincente, sta male. Che poi a scendere in campo sono i giocatori: e infatti gli 'zingari' assoldano calciatori, non allenatori; la cui eventuale gestione di una combine durante le riunioni tecniche, come viene addebitato a Conte, al comune senso logico sembra fatto assolutamente demenziale.

Ma la giustizia sportiva è fatta così, dicono (quando tutto questo sarà finito si vedrà di riformarla, si mormora, per intanto chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato), e allora meglio patteggiare, consigliano gli avvocati. Il patteggiamento: quella che è diventata l'altra bestia nera di Conte, perché è l'altro scandalo; non solo per i vantaggi di cui omaggia i cosiddetti pentiti, ma anche perché, vista la corsa al patteggiamento che c'è stata, ha fornito la dimostrazione più evidente che troppi incolpati non erano in condizioni di difendersi efficacemente: niente contraddittorio, la non validità del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio come regola di giudizio per giungere alla condanna; insomma, basta la parola, di 'qualcuno credibile', anche se un po' a intermittenza. E questa impossibilità di veder rispettato un proprio diritto inviolabile come il diritto alla difesa costringerebbe l'imputato Conte (e come lui tanti altri in questa vicenda) a contrattare, da innocente, una pena di lieve entità per non correre il rischio di vedersene appioppare, gratis, una molto più severa, che pregiudichi la carriera (è il rischio che ha corso lo stesso Bonucci); fatto che non può che mandare su tutte le furie uno come il tecnico salentino che non solo sa di essere innocente, ma considera infamante al sommo grado l'accusa che gli viene rivolta, non solo non accetta la pena, è l'accusa che lo fa ribollire dentro. E in cuor suo è senz'altro pago del fatto che il patteggiamento cui i suoi legali lo avevano spinto (per la ragion di stato) sia abortito: dovrà lottare, ma lo farà a testa alta, con orgoglio, gridando la sua innocenza finché avrà un filo di voce. Perché al proprio onore non si può abdicare.

Il ritornello con cui questa 'giustizia' sportiva ha ormai deciso di etichettare Conte (e solo lui, beninteso) è il 'non poteva non sapere', in tutta la sua abnormità: tanto che lo tengono di riserva anche per i futuri sviluppi dell'inchiesta di Bari, pompando a mille il suo interrogatorio da parte del pm. Ma dove poggiano tutta questa sicumera, peraltro sempre indimostrabile? Su Stellini. Ma chi era Stellini? Non era nemmeno il vice di Conte, a Siena (non lo sarà nemmeno alla Juve, non lo fu a Bari, dove era un semplice difensore, senza nulla che facesse intravedere una particolare confidenza con l'allenatore, come ha avuto a dichiarare recentemente Guberti): era semplicemente un assistente tecnico, una di quelle posizioni che non presuppongono un rapporto così stretto come il viceallenatore, che è un po' davvero l'alter ego del tecnico. Stellini è un componente dello staff tecnico, uno che collabora con il mister, ma ha un rapporto molto stretto con i giocatori, che lo vedono quasi come un tutor: tanto che, nell'episodio del diniego del permesso a Carobbio perché potesse assistere alla nascita della figlia, Stellini si comporta come un alleato del giocatore di fronte a quello che immagina sarebbe un probabile 'no' del tecnico (lo conosceva da Bari, conosceva lui e la sua intransigenza); 'tifa' per Pippo e allora gli consiglia di aggirare con un sotterfugio la severità del capo; e nemmeno osa fare da intermediario o intercedere in proposito, consapevole che verrebbe rimbalzato lui per primo. E allora andrebbe a parlargli della combine? Per rischiare di venire attaccato al muro come l'avvocato Chiappero quando gli ha proposto il patteggiamento? Non si regge nemmeno con le stampelle. Tralasciando il fatto che invece Poloni era davvero l'allenatore in seconda dell'AlbinoLeffe, eppure chi lo ha avuto come vice misteriosamente poteva non sapere e quindi anche per Palazzi & C. non sapeva, e va via liscio.

Così come vanno via lisci tutti gli altri allenatori che hanno giocatori (quando non intere squadre) coinvolti nelle combines, detto per quegli opinionisti che sostengono che un allenatore deve sapere tutto quello che accade nel suo spogliatoio, inteso addirittura in senso lato, non semplicemente come spazio fisico. E allora un tecnico non ha scampo: o gira con la telecamerina in fronte, come ipotizza Conte nella sua appassionata autodifesa, o non potrà mai dimostrare nulla. Conte si dice l'abbia spiegato a Laudati come uno spogliatoio, quando non vuol far sapere qualcosa ad un allenatore (proviamo a pensare a quando tira aria di fronda) si chiude ermeticamente: e non sono bambini dell'asilo, ma personaggi che abbiamo visto in grado di intrattenere relazioni molto pericolose con individui molto pericolosi come gli 'zingari'.

Bisogna dire che in questa sua battaglia Conte è rimasto molto solo: nessuna posizione presa dalla sua categoria non solo e tanto per difendere lui in particolare, ma per salvaguardare il ruolo; ma Conte li ha ammoniti: oggi tocca a lui, domani può toccare a loro. A meno che non sia opinione condivisa che basti star lontani dalla Juve e non succede nulla, che la colpa abbia un colore, anzi due, il bianco e il nero.

Così solo, che più d'uno ha addirittura criticato la Juve e il suo presidente perché sin dall'inizio si sono schierati a fianco del loro mister: il fatto è che Andrea conosce bene Antonio, ne conosce la pulizia d'animo e non ha dubbi di sorta su chi sia più credibile tra lui e 'Pippo' (oltre al fatto che Andrea sin da piccino ha frequentato gli ambienti del calcio giocato, e sa cosa sia plausibile e cosa non lo sia).
E ci mancherebbe pure: Conte fa parte della gente della Juve, quella che "sa gioire, soffrire, stringere i denti", gente "che si riconosce, che sa accettare i risultati ottenuti su un campo verde"; Andrea Agnelli non difende solo un allenatore vincente, difende una persona, che non può e non deve venir messa in mezzo solo perché per qualcuno diviene conveniente 'pentirsi' e fare tanti di quei nomi cui la Procura federale anela: e insieme a tanti pesci piccoli; perché non dimentichiamo che in questo pasticciaccio ci hanno lasciato le penne, professionalmente e sul piano della dignità personale, tanti altri nomi minori, che fanno numero e servono a dar l'impressione che si sia ripulito il mondo del calcio. Ma non può esservi pulizia se non c'è prima giustizia. Lo stesso ritornello di Calciopoli, in fondo, in quest'Italia del Gattopardo.

Comunque si evolverà questa vicenda, quanto successo a Conte in questa pseudo-Scommessopoli (perché a scommettere su quelle gare non era Conte, ma Carobbio con la sua accolta di combinatori) lascerà tracce profonde: oltre al danno professionale e d'immagine subìto dal tecnico, c'è il danno mediatico (la Juve gira l'Europa per la Champions League con un tecnico squalificato nell'ambito del calcioscommesse, questo è quello che passa) e anche in soldoni (perché certo l'ambiente è stato turbato, Conte non è in panchina e, con tutta la stima per Carrera, prima o poi i risultati potrebbero risentirne).
I tifosi non dimenticheranno tanto facilmente il viso tirato di Conte che vedono oggi arrivare e ripartire da Vinovo, la sua furia indignata davanti alle 'agghiaccianti' accuse di Palazzi, il viso intristito, quasi incredulo, in tribuna di uno che era abituato a perdere la voce in panchina.
Nessuno lo dovrà dimenticare: sarà lo spot di una giustizia Ingiusta, di un mondo che ha probabilmente paura di cercare il marcio dove davvero c'è: perché potrebbe essere pericoloso, per questo gigante d'argilla, perdere le fondamenta della sua autorità (perché l'autorevolezza se l'è giocata da tempo).

 

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