Siamo sicuri che la scelta del rito abbreviato fosse quella più utile per Antonio Giraudo? Siamo sicuri che il processo e l’indagine nei suoi confronti si siano svolti nel rispetto dei principi alla base del nostro ordinamento? Siamo sicuri che il giudizio del GUP De Gregorio sia maturato in tutta serenità?
Non credo di avere le risposte a tutte queste domande, ma, di sicuro, possiamo esaminare qualche importante elemento.
Iniziamo col dire che, visto l’esito, la scelta di Giraudo di chiedere il rito abbreviato non è stata sicuramente delle più felici. Certo, dirlo adesso è molto più facile, ma se l’ex amministratore delegato della squadra più titolata d’Italia avesse valutato a fondo una serie di circostanze interne ed esterne al processo, sono sicuro che avrebbe preso un’altra strada.
E’ evidente che Giraudo e la sua difesa devono aver valutato che la scelta del rito abbreviato avrebbe portato con sé due risultati. Innanzitutto devono aver confidato nel fatto che, non trovandosi più dinanzi alla frizzante giustizia sportiva, un Giudice con tanto di toga avrebbe valutato più attentamente l’inconsistente impianto accusatorio predisposto sì da un altro Giudice, sempre togato, ma inquirente. In secondo luogo devono aver confidato nel minore risalto mediatico che avrebbe riscontrato questo processo rispetto all’altro, ovvero quello ordinario, con più imputati, con i testimoni e con il dibattimento, un palcoscenico che deve essere stato ritenuto troppo favorevole per le facili speculazioni legal-giornalistiche tanto in voga negli ultimi anni.
Entrambe le valutazioni si sono rivelate fallaci, dal momento che il GUP di Napoli ha deciso sulla base di elementi addirittura ignorati e smentiti dalle stesse sentenze calciopolare che, ricordiamolo, dovettero inventare il reato di illecito strutturato per condannare la Juventus e i suoi amministratori. Inoltre, contrariamente a quanto auspicato da Giraudo, la notizia della sua condanna ha comunque determinato la reazione sguaiata e scomposta di molti mezzi di informazione, facendo immeritata compagnia a quella di Corona e alla miniatura del Duomo scagliata tra i denti del Premier.
E’ chiaro che si fa un sostanziale ed avvilente passo indietro rispetto a quello che crediamo essere stato il reale svolgimento dei fatti di quegli anni e rispetto al necessario riequilibrio delle affrettate sentenze sportive di Calciopoli, ma è altrettanto vero che Giraudo ha pagato, e a caro prezzo, la sua mal celata voglia di separare le sue sorti da quelle di Luciano Moggi. Scelta rivelatasi del tutto errata oltre che svelata, non solo dalla frettolosa richiesta di farsi giudicare con il rito abbreviato e dal sabaudo silenzio di questi tre anni, ma anche da quanto sostenuto dalla stessa difesa nel corso del processo. A chi scrive risulta che, dinanzi al GUP De Gregorio, la difesa dell’ex ad abbia sostenuto, tra le altre cose, che Antonio Giraudo andasse assolto anche perché, occupandosi della gestione finanziaria e amministrativa, non aveva né il compito, né il modo di occuparsi della gestione sportiva.
Sebbene sia evidente che il dato della ignoranza del legale rappresentante in ordine alle faccende dei propri subalterni e della gestione corrente sia stato troppo spesso sopravvalutato e sebbene sia altrettanto evidente che ciò sia avvenuto con troppa disinvoltura quando si è trattato di non condannare alla forca altre società di calcio, è altrettanto evidente che nel nostro caso Giraudo si è occupato eccome del lato sportivo, e questo non solo perché il pallone, in una squadra di calcio, è il c.d core business dell’azienda, così come può esserlo il petrolio o l’ambiente in una raffineria o il telefono e i suoi derivati in una società di comunicazione, ma anche e soprattutto perché, in questi anni, il buon Giraudo ha dimostrato di capire di calcio, anzi di capirlo fin troppo e di parlarne spesso e volentieri: non sarà un caso che nelle intercettazioni che lo hanno riguardato si è parlato proprio di calcio giocato e spesso non di altro. A differenza dell’accusa e del 90% dei mass media italiani, non credo sia una colpa, ma a differenza della linea difensiva tenuta nel processo credo che sia un merito da rivendicare e non da nascondere.
In secondo luogo Giraudo deve aver troppo confidato di trovarsi in un giudizio “normale” e completamente edulcorato dalle forzature di Calciopoli e ha dimenticato che, preoccupandosi principalmente di separare la propria responsabilità da quella di Luciano Moggi, non ha fatto altro che avvalorare le più che discutibili tesi degli inquirenti, ingenerando nel GUP l’idea che la strategia dell’ex ad juventino di allontanarsi processualmente e sostanzialmente da Moggi in realtà nascondesse l’intenzione di prendere le distanze da qualcosa di riprovevole e quindi sanzionabile.
Non sarà un caso che nei mini corsi di formazione degli addetti alle vendite degli aspirapolvere, i docenti si sforzano di convincere gli aspiranti venditori porta a porta, cioè i propri allievi, che è meglio evitare di impostare i rapporti con il prossimo negando preventivamente un difetto o una condizione e questo perché, la maggior parte delle volte, si ha l’effetto contrario. Se affermo che non ho un difetto, il mio interlocutore sarà necessariamente portato a immaginarmi con quel difetto.
Antonio Giraudo si convinca: il suo destino era ed è legato a doppio filo con quello di Moggi e, perché no, anche con quello di Bettega, se è vero come è vero che l’immacolato Bobbygol è tuttora fuori dal calcio per vicende che, vere o false che siano, neanche lo riguardano. Basti dire che, sebbene i processi più clamorosi, ovvero quelli di Calciopoli, abbiano riguardato solo l’ex amministratore delegato e l’ex direttore generale della Juve, nell’immaginario collettivo, distratto e smemorato, i processi sono stati fatti alla Triade e quindi comprendono anche Bettega che, dal canto suo, ha fatto il bottino pieno: un processo e un’assoluzione, perché il fatto non sussiste, nell’ambito del processo sul c.d doping amministrativo.
Antonio Giraudo, piuttosto che insinuare al GUP il dubbio che in tutto il fumo del processo ci fosse pure un po’ di arrosto, avrebbe fatto bene a ricordare al suo interlocutore che nei suoi confronti non c’era e non c’è niente oltre il nulla. Ovviamente nulla oltre i teoremi dell'accusa, teoremi rimasti senza riscontro alcuno se è vero, come è vero, che per condannare Giraudo si siano dovute rispolverare le ammonizioni preventive di tre giocatori dell’Udinese che anche i sassi ormai rammentano di quanto poco diffidati fossero.
Si consideri che neanche i Carabinieri di Via In Selci avevano assegnato una sim svizzera a Giraudo, né esiste agli atti una sola intercettazione con uno qualsiasi degli arbitri, coi quali, va detto, non è mai stato dimostrato che avesse parlato neanche lo stesso Moggi.
Non sarà sfuggito ai nostri lettori di come su questo sito sia stato ampiamente dimostrato che il processo a Giraudo, così come quello a Moggi, sia stato imbastito e portato avanti senza lo straccio di una prova che sia tale. Ovviamente se per prova intendiamo la dimostrazione certa, concreta e incontestata che qualcuno compie qualcosa, magari di illecito.
L’ex amministratore delegato della Juventus non solo è stato condannato senza che sia stata rinvenuta la pistola, tanto meno fumante, ma anche senza aver capito chi avesse premuto il grilletto, dove, quando e verso di chi.
Manca finanche la prova di una sola comunicazione tra Giraudo e quelli che sarebbero o sarebbero stati i suoi associati, così come manca la prova dell’interesse che potessero avere gli arbitri nel far vincere una sola partita alla Juventus o, addirittura, un solo pagamento sospetto.
E’ vero, mancano le prove, ma, in compenso, c’è la puntuale, sollecita e interessante intervista al magistrato che, ricordiamolo, nel momento in cui decide è un po’ più vicino a Dio e lontano dagli uomini e, avvalendosi di questa riconosciuta vicinanza, ha deciso della vita di quattro persone su undici.
Il GUP De Gregorio, sottraendo un giorno ai novanta che attendo per leggere la sua motivazione, in un’intervista concessa a "La Stampa", dimenticando che in Italia vige la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva ovvero passata in giudicato e dimenticando di aver giudicato in un solo grado di giudizio e per di più solo una parte delle persone processate, assolvendone la maggior parte, ha avuto modo di sostenere che le sentenze sportive fossero “equilibrate” e che fosse giusto che dovesse andare così, ovvero che la Juventus dovesse finire in serie B.
Il tutto non prima di aver confessato la sua fede per il Napoli Calcio.
Non credo di avere le risposte a tutte queste domande, ma, di sicuro, possiamo esaminare qualche importante elemento.
Iniziamo col dire che, visto l’esito, la scelta di Giraudo di chiedere il rito abbreviato non è stata sicuramente delle più felici. Certo, dirlo adesso è molto più facile, ma se l’ex amministratore delegato della squadra più titolata d’Italia avesse valutato a fondo una serie di circostanze interne ed esterne al processo, sono sicuro che avrebbe preso un’altra strada.
E’ evidente che Giraudo e la sua difesa devono aver valutato che la scelta del rito abbreviato avrebbe portato con sé due risultati. Innanzitutto devono aver confidato nel fatto che, non trovandosi più dinanzi alla frizzante giustizia sportiva, un Giudice con tanto di toga avrebbe valutato più attentamente l’inconsistente impianto accusatorio predisposto sì da un altro Giudice, sempre togato, ma inquirente. In secondo luogo devono aver confidato nel minore risalto mediatico che avrebbe riscontrato questo processo rispetto all’altro, ovvero quello ordinario, con più imputati, con i testimoni e con il dibattimento, un palcoscenico che deve essere stato ritenuto troppo favorevole per le facili speculazioni legal-giornalistiche tanto in voga negli ultimi anni.
Entrambe le valutazioni si sono rivelate fallaci, dal momento che il GUP di Napoli ha deciso sulla base di elementi addirittura ignorati e smentiti dalle stesse sentenze calciopolare che, ricordiamolo, dovettero inventare il reato di illecito strutturato per condannare la Juventus e i suoi amministratori. Inoltre, contrariamente a quanto auspicato da Giraudo, la notizia della sua condanna ha comunque determinato la reazione sguaiata e scomposta di molti mezzi di informazione, facendo immeritata compagnia a quella di Corona e alla miniatura del Duomo scagliata tra i denti del Premier.
E’ chiaro che si fa un sostanziale ed avvilente passo indietro rispetto a quello che crediamo essere stato il reale svolgimento dei fatti di quegli anni e rispetto al necessario riequilibrio delle affrettate sentenze sportive di Calciopoli, ma è altrettanto vero che Giraudo ha pagato, e a caro prezzo, la sua mal celata voglia di separare le sue sorti da quelle di Luciano Moggi. Scelta rivelatasi del tutto errata oltre che svelata, non solo dalla frettolosa richiesta di farsi giudicare con il rito abbreviato e dal sabaudo silenzio di questi tre anni, ma anche da quanto sostenuto dalla stessa difesa nel corso del processo. A chi scrive risulta che, dinanzi al GUP De Gregorio, la difesa dell’ex ad abbia sostenuto, tra le altre cose, che Antonio Giraudo andasse assolto anche perché, occupandosi della gestione finanziaria e amministrativa, non aveva né il compito, né il modo di occuparsi della gestione sportiva.
Sebbene sia evidente che il dato della ignoranza del legale rappresentante in ordine alle faccende dei propri subalterni e della gestione corrente sia stato troppo spesso sopravvalutato e sebbene sia altrettanto evidente che ciò sia avvenuto con troppa disinvoltura quando si è trattato di non condannare alla forca altre società di calcio, è altrettanto evidente che nel nostro caso Giraudo si è occupato eccome del lato sportivo, e questo non solo perché il pallone, in una squadra di calcio, è il c.d core business dell’azienda, così come può esserlo il petrolio o l’ambiente in una raffineria o il telefono e i suoi derivati in una società di comunicazione, ma anche e soprattutto perché, in questi anni, il buon Giraudo ha dimostrato di capire di calcio, anzi di capirlo fin troppo e di parlarne spesso e volentieri: non sarà un caso che nelle intercettazioni che lo hanno riguardato si è parlato proprio di calcio giocato e spesso non di altro. A differenza dell’accusa e del 90% dei mass media italiani, non credo sia una colpa, ma a differenza della linea difensiva tenuta nel processo credo che sia un merito da rivendicare e non da nascondere.
In secondo luogo Giraudo deve aver troppo confidato di trovarsi in un giudizio “normale” e completamente edulcorato dalle forzature di Calciopoli e ha dimenticato che, preoccupandosi principalmente di separare la propria responsabilità da quella di Luciano Moggi, non ha fatto altro che avvalorare le più che discutibili tesi degli inquirenti, ingenerando nel GUP l’idea che la strategia dell’ex ad juventino di allontanarsi processualmente e sostanzialmente da Moggi in realtà nascondesse l’intenzione di prendere le distanze da qualcosa di riprovevole e quindi sanzionabile.
Non sarà un caso che nei mini corsi di formazione degli addetti alle vendite degli aspirapolvere, i docenti si sforzano di convincere gli aspiranti venditori porta a porta, cioè i propri allievi, che è meglio evitare di impostare i rapporti con il prossimo negando preventivamente un difetto o una condizione e questo perché, la maggior parte delle volte, si ha l’effetto contrario. Se affermo che non ho un difetto, il mio interlocutore sarà necessariamente portato a immaginarmi con quel difetto.
Antonio Giraudo si convinca: il suo destino era ed è legato a doppio filo con quello di Moggi e, perché no, anche con quello di Bettega, se è vero come è vero che l’immacolato Bobbygol è tuttora fuori dal calcio per vicende che, vere o false che siano, neanche lo riguardano. Basti dire che, sebbene i processi più clamorosi, ovvero quelli di Calciopoli, abbiano riguardato solo l’ex amministratore delegato e l’ex direttore generale della Juve, nell’immaginario collettivo, distratto e smemorato, i processi sono stati fatti alla Triade e quindi comprendono anche Bettega che, dal canto suo, ha fatto il bottino pieno: un processo e un’assoluzione, perché il fatto non sussiste, nell’ambito del processo sul c.d doping amministrativo.
Antonio Giraudo, piuttosto che insinuare al GUP il dubbio che in tutto il fumo del processo ci fosse pure un po’ di arrosto, avrebbe fatto bene a ricordare al suo interlocutore che nei suoi confronti non c’era e non c’è niente oltre il nulla. Ovviamente nulla oltre i teoremi dell'accusa, teoremi rimasti senza riscontro alcuno se è vero, come è vero, che per condannare Giraudo si siano dovute rispolverare le ammonizioni preventive di tre giocatori dell’Udinese che anche i sassi ormai rammentano di quanto poco diffidati fossero.
Si consideri che neanche i Carabinieri di Via In Selci avevano assegnato una sim svizzera a Giraudo, né esiste agli atti una sola intercettazione con uno qualsiasi degli arbitri, coi quali, va detto, non è mai stato dimostrato che avesse parlato neanche lo stesso Moggi.
Non sarà sfuggito ai nostri lettori di come su questo sito sia stato ampiamente dimostrato che il processo a Giraudo, così come quello a Moggi, sia stato imbastito e portato avanti senza lo straccio di una prova che sia tale. Ovviamente se per prova intendiamo la dimostrazione certa, concreta e incontestata che qualcuno compie qualcosa, magari di illecito.
L’ex amministratore delegato della Juventus non solo è stato condannato senza che sia stata rinvenuta la pistola, tanto meno fumante, ma anche senza aver capito chi avesse premuto il grilletto, dove, quando e verso di chi.
Manca finanche la prova di una sola comunicazione tra Giraudo e quelli che sarebbero o sarebbero stati i suoi associati, così come manca la prova dell’interesse che potessero avere gli arbitri nel far vincere una sola partita alla Juventus o, addirittura, un solo pagamento sospetto.
E’ vero, mancano le prove, ma, in compenso, c’è la puntuale, sollecita e interessante intervista al magistrato che, ricordiamolo, nel momento in cui decide è un po’ più vicino a Dio e lontano dagli uomini e, avvalendosi di questa riconosciuta vicinanza, ha deciso della vita di quattro persone su undici.
Il GUP De Gregorio, sottraendo un giorno ai novanta che attendo per leggere la sua motivazione, in un’intervista concessa a "La Stampa", dimenticando che in Italia vige la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva ovvero passata in giudicato e dimenticando di aver giudicato in un solo grado di giudizio e per di più solo una parte delle persone processate, assolvendone la maggior parte, ha avuto modo di sostenere che le sentenze sportive fossero “equilibrate” e che fosse giusto che dovesse andare così, ovvero che la Juventus dovesse finire in serie B.
Il tutto non prima di aver confessato la sua fede per il Napoli Calcio.