E’ ripartito il dibattimento a Napoli e le parti civili, in un primo tempo escluse dal Collegio Giudicante presieduto dalla Dott.ssa Teresa Casoria, sono tornate a bussare alla porta del processo, forti di una pronuncia della Corte di Cassazione che sancisce la loro riammissione.
La vicenda della riammissione degli esclusi è interessante da un punto di vista giuridico, ma, sul piano pratico, non dovrebbe avere conseguenze particolari.
E’ infatti presumibile che le parti civili riammesse non intendano ostacolare la speditezza del processo, favorendo la conservazione delle attività processuali già compiute in loro assenza.
D’altra parte è pur vero che le parti civili avrebbero ben potuto, anche da escluse, trarre vantaggio da una sentenza loro eventualmente favorevole, convenendo in separato e successivo giudizio civile gli imputati dichiarati colpevoli ed i responsabili civili (tra cui, non dimentichiamolo, la stessa Juventus F.C. S.p.A., ex datore di lavoro di Luciano Moggi ed in quanto tale, come puntualmente analizzato in altro articolo, passibile di responsabilità indiretta ai sensi dell’art. 2049 del Codice civile).
Se è vero che le conseguenze “pratiche” saranno probabilmente limitate, resta, come si diceva, interessante valutare la vicenda in questione da un punto di vista giuridico.
La sentenza della Cassazione, emessa dal Supremo Collegio il 09/07/2009 e depositata il 09/10/2009, ha fatto parlare di sé, soprattutto per il fatto che, se così si può dire, è piuttosto dura nei confronti dei Giudici napoletani.
Il concetto giuridico al quale si richiama la Cassazione per censurare il provvedimento del Tribunale di Napoli è quello della abnormità, figura che, “come finemente argomentato (cfr. Cass. Sez. II, 15/02/2007 n° 10498, Berlusconi ed altri), già sotto il profilo semantico, evoca una fuoriuscita dell’atto dall’alveo, non della validità, ma della stessa riconoscibilità semantica del provvedimento” (così la sentenza in commento).
Un provvedimento può essere abnorme, prosegue la Cassazione, sotto il profilo strutturale (laddove il giudice eserciti un potere non attribuitogli dalla legge) oppure sotto il profilo funzionale (laddove si verifichi, per usare le parole della sentenza, “uno sviamento della funzione giurisdizionale rispetto ai fini tipici che l’ordinamento assegna al provvedimento”).
Nel caso del provvedimento impugnato si tratterebbe, secondo la Suprema Corte, di abnormità funzionale, dal momento che il Collegio napoletano avrebbe esercitato il potere di escludere le parti civili “evocando in modo arbitrario e improprio il concetto di economia processuale”, estraneo al nostro ordinamento che, per l’ammissione delle parti civili, si limita a richiedere la ricorrenza di alcuni presupposti formali dell’atto di costituzione di parte civile e la sussistenza di un nesso causa / effetto tra i danni reclamati dalla parte civile e i fatti per cui si procede penalmente.
Proviamo ad abbandonare il “giuridichese”, cercando di spiegare quanto accaduto in maniera comprensibile.
A leggere la sentenza della Cassazione parrebbe che Casoria & co. abbiano sbattuto la porta in faccia alle parti civili per l’esigenza di “fare in fretta” e, siccome non c’è nessuna norma che legittimi il giudice ad adottare un provvedimento di esclusione basandolo su simile presupposto, il Collegio napoletano avrebbe “usato” la norma che gli permetteva di escludere le parti civili, “sviandone” la reale funzione, ossia abusando di un potere.
Ma è davvero così? Davvero i giudici di Napoli hanno basato il loro provvedimento sull’esigenza di “fare in fretta”? Le cose sono un po’ più complesse.
Il criterio dell’economia processuale è in effetti richiamato dall’ordinanza del Tribunale di Napoli, che così si è espresso: “se è vero che la titolarità dell'azione riparatoria va tendenzialmente riconosciuta al civilmente danneggiato indipendentemente dalla circostanza che questi sia anche soggetto passivo del reato, non di meno, sempre tenuto nel massimo conto le circostanze particolari del caso concreto, è quantomeno non conforme al criterio di economia processuale identificare il danneggiato con qualunque titolare di interesse leso astraendo tale giudizio dagli interessi immediatamente protetti dalla norma penale.
Ancora più rilevante, per comprendere la logica seguita dal Tribunale, un passaggio successivo dell’ordinanza (poi impugnata in Cassazione dalle parti civili): “secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale il diritto del danneggiato laureato ad esercitare l'azione civile in sede penale non è oggetto di garanzia costituzionale (cfr. Corte Costituzionale sentenza 03/04/96 n° 98 ) né una tale garanzia è riconosciuta a livello di giurisprudenza comunitaria (confronta Corte di Giustizia CE 17/01/2002 )”.
In altre parole, il fatto che gli oggetti di protezione della norme penali per cui si procede (art. 416 del Codice penale, associazione per delinquere ed associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva, cfr. Legge n° 401/1989) non possano identificarsi in via immediata con l’oggetto delle pretese risarcitorie delle parti civili (le norme suddette proteggono l’ordine pubblico e l’interesse alla libertà ed alla sincerità delle competizioni sportive, non identificabili con l’interesse delle parti civili ad ottenere la reintegrazione economica e morale) legittimava (avrebbe legittimato), secondo il Tribunale, l’esclusione delle parti civili.
La questione, almeno così a noi pare, non è (non era) la garanzia di speditezza processuale, ma la valutazione dei presupposti sostanziali che possono legittimare la permanenza delle parti civili nel processo penale.
Il Tribunale di Napoli aveva proposto un possibile criterio interpretativo: se l’oggetto di protezione delle norme penali non è immediatamente riferibile agli interessi delle parti civili, che queste si rivolgano alla giustizia civile.
Attenzione: con ciò non si nega (non si sarebbe negata) la tutela ai danneggiati, liberissimi di tutelare le loro ragioni, appunto, in sede civile, magari avvalendosi di una sentenza penale loro favorevole. D’altra parte, come ricordato dai Giudici napoletani, tanto la giurisprudenza costituzionale quanto quella comunitaria non considerano come assoluto il diritto del danneggiato ad esercitare l’azione civile in sede penale.
La Cassazione, evidentemente, non ha condiviso il ragionamento del Tribunale, “strumentalizzando” il criterio dell’economia processuale (richiamato a nostro avviso un po’ ingenuamente dal Collegio napoletano, che ha fornito un prezioso assist ai suoi censori) e liquidando in poche righe la questione più rilevante posta dal Tribunale, ossia quella delle condizioni sostanziali legittimanti la costituzione di parte civile in sede penale. Sul punto il Supremo Collegio afferma: “il Tribunale di Napoli si è arrogato una facoltà che nessuna norma gli riconosce: quella di stabilire (in base a pretese ragioni di economia processuale, sia pure collegate a imprecisate circostanze del caso concreto) se il danneggiato debba esercitare l’azione civile nel processo penale ovvero nella sede civile”, richiamando l’art. 75 del Codice di procedura penale, norma di legge ordinaria, in base alla quale il danneggiato può scegliere se far valere i propri diritti in sede civile o in sede penale.
Ai Giudici della Cassazione non viene in mente che quel diritto, previsto dall’art. 75 del Codice di procedura penale, potrebbe (dovrebbe) essere interpretato alla luce dell’ordinamento costituzionale e di quello comunitario. Non a caso i precedenti della giurisprudenza costituzionale e comunitaria sulla non assolutezza del diritto del danneggiato a costituirsi parte civile nel processo penale non sono minimamente considerati e nel passaggio della sentenza che affronta il tema cruciale posto dai Giudici di Napoli si “preferisce” richiamare nuovamente “le ragioni di economia processuale”.
Il fatto è che, per censurare il provvedimento del Tribunale, la Cassazione è “costretta” a ricorrere all’abnormità: in linea di principio, infatti, l’ordinanza di esclusione delle parti civili da un processo penale è, in base al Codice di procedura penale, provvedimento inoppugnabile, ossia non soggetto ad impugnazione.
L’impugnazione è avvenuta da parte degli esclusi ed il suo accoglimento è stato possibile proprio perché si è ricorsi al vizio di abnormità, di gravità tale da consentire l’“aggiramento” del principio di tassatività delle impugnazioni, secondo cui sono soggetti ad impugnazione soltanto i provvedimenti giudiziari elencati dalla legge (e fra questi non figura appunto l’ordinanza di esclusione delle parti civili).
Scendiamo dall’empireo del diritto e torniamo sulla “terra” delle vicende processuali.
Abbiamo appreso in questi giorni che la Procura della Repubblica di Napoli ha chiesto la ricusazione del Collegio giudicante (iniziative analoghe delle Procure sono state in passato rarissime). Al momento in cui scriviamo queste righe non sono state rese note le motivazioni in base alle quali la Procura ha deciso di adottare una così radicale iniziativa, ma non è affatto difficile ipotizzare che l’istanza dei PM si basi anche sulla pesante censura della Cassazione riguardante il provvedimento di esclusione delle parti civili.
Ad oggi non abbiamo ancora sufficienti elementi per giudicare la bontà o meno della conduzione del processo da parte dell’attuale Collegio giudicante.
Non vorremmo, tuttavia, che in nome della pretesa abnormità di un provvedimento (che si sarebbe anche potuto criticare, ma che forse tanto abnorme non era) partisse una “crociata” dei PM e, a rimorchio, di certa stampa contro i Giudici.
Questo sì, sarebbe un comportamento abnorme... ma, a pensarci bene, perfettamente in linea con Farsopoli.
Dell'abnormità
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