"L'attribuibilità delle schede cd riservate ed il loro uso ai vari imputati (Moggi, Pairetto, Bergamo, Mazzini, Fabiani, De Santis, Dattilo, Bertini, Racalbuto solo a titolo di esempio) appare più che certa non solo per la già citata ammissione resa da alcuni di essi (fra cui anche il Bergamo in sede di interrogatorio) ma anche dalla attenta individuazione effettuata con 'olio di gomito' (come indicato nella sentenza impugnata) sui tabulati acquisiti dal teste di P.G. Di Laroni. La deposizione resa dal suddetto teste in più udienze (ud. 10.11.2009, ud. 13.11.2009) appare assolutamente chiara, precisa ed esplicativa del sistema adottato per l'attribuibilità delle singole schede in oggetto in uso ai singoli imputati".
Così la sentenza dell'Appello sulle schede svizzere.
Con una totale presunzione di affidabilità di quel 'metodo Di Laroni' che la sentenza di primo grado aveva definito 'artigianale', riconoscendo, come, tra le tante pecche, avesse comportato "un'apparenza di contatti superiori a quelli rappresentati dall'investigatore". Anche se poi, dopo aver preso nota di tale inaffidabilità, aveva valorizzato a tal punto l'elemento 'schede svizzere', contatti telefonici 'ammantati di clandestinità', da farne importante base per la condanna.
In realtà questo metodo, che dire rudimentale è ancor generoso, di buchi ne evidenziava a profusione. Come quell'impossibile ubiquità per cui ad esempio la scheda 751 chiama la 958 per 38 secondi, ma due secondi dopo l'inizio della prima chiamata risulta chiamare anche la 155: un'assurdità cui Di Laroni, di fronte a puntuale contestazione dell'avv. Morescanti, non ha saputo biascicare che un "il dato certo, esatto... non lo sapremo mai". Per esempio anche le discrasie tra i numeri delle chiamate reciproche in entrata e in uscita, che devono coincidere: ciò non avviene, ad esempio nei presunti contatti tra Moggi e Bertini; ma anche qui Di Laroni se ne è uscito con un disarmante: "Non c'è una spiegazione, non sono in grado di darla", per poi, di fronte all'incalzare di domande dell'avv. Messeri, chiudere con un esilarante quanto inquietante "Sicuramente si sono parlati almeno una volta", meritandosi appieno l'ironia dell'avv. Prioreschi: "Ho capito, che facciamo, a peso facciamo?".
Ma son solo due esempi, tra i più lampanti. Contestabili a occhio: il problema è che l'olio di gomito non ha consentito alle difese di verificare le rilevazioni, come invece avrebbero potuto fare se queste fossero state fatte con 'Analist', lo specifico programma forense che, interrogato, avrebbe almeno consentito di verificare la correttezza dei dati, purgandoli dal pressapochismo di cui soffrivano. Ma Di Laroni a Prioreschi disse che a lui bastava così, che poi i dati "ognuno li legge come vuole". Del resto, per bypassare tutta questa commedia degli errori, pardon orrori, sarebbe bastato intercettare queste schede. Come mai non ci hanno pensato?
Beh, non è proprio così: ci hanno pensato, eccome. Maresciallo Di Laroni, deposizione nell'udienza dell'11 maggio 2010: "Abbiamo provato anche a intercettare queste utenze, però con esito negativo... sostanzialmente, nel periodo in cui sono state intercettate non c'era traffico, non hanno prodotto alcun tipo di traffico".
Ecco, appunto: non se ne cavava niente intercettandole... Allora meglio lavorare con metodo artigianale, che ti regala quella libertà che la fredda tecnologia ti nega...
E' vero, poi molte cose non quadrano, ma che sarà mai? Qualcos'altro sarà sfuggito. Ma la tecnica è collaudata: in fondo è la stessa applicata all'incontro di Villa La Massa, a Collesalvetti presso Firenze, nella cena salva-Fiorentina del 14 maggio 2005, con i fratelli Della Valle da una parte e Bergamo e Mazzini dall'altra: non si sa cosa si siano detti; Auricchio, in sede di interrogatorio ha dichiarato che non c'è conoscenza dei contenuti: tesi smentita da una gola profonda, un investigatore (e, fidatevi, non era l'ultima ruota del carro) che, oltre ad aver dato conferma delle schede svizzere intercettate ma mute, dei baffi colorati e di tante altre sconcezze farsopolare, ha affermato che in tale occasione fu usato un microfono direzionale, che però non diede i risultati sperati, quindi l'audio sarebbe stato cestinato; e la pallottola, anche in questo caso spuntata, sarebbe costituita dalle immagini che ritraevano i commensali che si incontravano; e anche questa prova mancata è stata usata nelle motivazioni dell'appello: "Il fatto che non se ne conosca il contenuto non incide sulla valenza probatoria dell'accertamento giacché indubbiamente non trova in atti versione alternativa dello stesso". Ovverosia: siccome nessuno ci ha dimostrato che si siano detti qualcosa di diverso, perché non potrebbe essere vera la nostra costruzione (di fantasia)? Come per le sim. Un rovesciamento totale del valore sostanziale della prova, un salto carpiato rovesciato nell'indeterminatezza, dove ognuno legge quel che vuole.
Un'ultima considerazione.
Le motivazioni della sentenza di appello, anziché provare le molto presunte colpe di Moggi, si preoccupano piuttosto di dare un giudizio sulla sua persona; ancora una volta si è badato solo a correr dietro a Moggi, uno condannato perché non piace, tradotto non fa gioco, quello che è, non perché le sue azioni siano comprovatamente illecite. A cominciare dalle schede svizzere, il cui possesso è assolutamente legale, a meno che non si provi che siano state usate per commettere reati: si provi, ho detto, non si ipotizzi e si fantastichi, come in realtà, abbiamo visto, è avvenuto.
E Moggi viene dipinto come individuo di una spregiudicatezza non comune, di una personalità decisa ma al tempo stesso concreta (e poi, ovviamente, queste caratteristiche, di per sé bifronti, ma interpretate dalla sentenza come volte al male): ebbene, un simile individuo sarebbe andato "in pompa magna" (così scrive la sentenza di primo grado) a Chiasso a comprare le schede, per conto della Juventus, per poi compiere reati (qualcosa che in genere è ammantato di quella clandestinità che viene attribuita ai colloqui 'occulti'). Tutto questo quando ovviamente è ormai acclarato che la causa addotta da Moggi per l'acquisto delle schede (ovvero lo spionaggio 'industriale' Inter-Telecom-Pirelli) era, questa sì, reale, e prefigurava, questa sì, un reato.
Ma l'Inter, si sa, non interessava né interessa.