Continuiamo la nostra miniserie di articoli dedicati alla sentenza di primo grado di Calciopoli con particolare riferimento alle condanne subite dall’ex direttore generale della Juventus, Luciano Moggi.
Dopo il lungo percorso di analisi specifica di ciascuna condanna e, nella precedente puntata, alcune considerazioni di carattere generale relative al modo con cui è stato trattato l’ex dirigente bianconero in questo processo, è finalmente arrivato il momento di presentare in tutta la sua interezza la star di questo processo: il reato di pericolo. Chi ha letto i precedenti articoli dello Speciale avrà ormai ben chiaro che la sentenza di condanna poggia solo e solamente sulla convinzione, presunta dai giudici, che le telefonate di Moggi a monte della competizione sportiva avessero potuto in qualche modo mettere in pericolo il bene giuridico protetto dalla legge 401/89, quella della frode sportiva, ovvero il “leale e corretto svolgimento” della gara.
Questa serie di frodi, ricordiamo, è stata poi anche propedeutica per la condanna di associazione a delinquere. È proprio questa infatti la presunta prova la cui sussistenza "serve a orientare la decisione anche sulla sussistenza del delitto di cui all’art. 416 c.p." (pag. 78 nelle motivazioni della sentenza). Ciò è dovuto fondamentalmente al fatto che questi comportamenti, giudicati delittuosi dal tribunale, furono compiuti spesso dalle medesime persone, quindi Moggi stesso (assieme a Giraudo), i designatori arbitrali, alcuni arbitri e un dirigente federale.
Iniziamo precisando che i reati di pericolo sono reati a “consumazione anticipata, che presentano particolare modo di protezione del bene ideale della lealtà dello sport. La protezione si svolge cioè in un momento temporalmente anticipato rispetto all’ordinario". (pag. 78). È dunque una fattispecie piuttosto generica ed astratta, precedente e spesso non direttamente collegabile agli attori dell’evento di cui, in teoria, si lede “il leale e corretto” svolgimento. Una fattispecie che necessita quindi dell’interpretazione e di una serie di verifiche del giudice per poter configurare il reato. A questo scopo il tribunale nella propria sentenza elenca i tre momenti di indagine che ritiene fondamentali per poter considerare reato di pericolo presunto un comportamento o un’azione: “la prima indagine dovrebbe essere diretta all’accertamento dell’atto fraudolento, la seconda dovrebbe essere diretta all’accertamento del fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, la terza dovrebbe essere diretta all’accertamento dell’efficienza dell’atto fraudolento a raggiungere il fine, secondo un normale giudizio di previsione, nelle date circostanze” (pag. 78).
In realtà, per completare il percorso ci sarebbe “secondo quella che sembra essere stata l’opinione del legislatore, che a suo tempo ebbe a richiamare l’art. 49 co. 2 c.p” (pag. 78) anche una quarta indagine da fare, quella più specifica, ovvero quella che identifica la circostanza più concreta della messa in pericolo del bene giuridico, perché “dovrebbe essere diretta all’accertamento della possibilità di ricollegare all’atto il pericolo vietato dalla legge penale” (pag. 78). Ma proprio questa fase viene esplicitamente ignorata dal giudice per via della “contrastata interpretazione in dottrina” (pag. 78).
Entrando nel merito di ciascuna fase, il collegio in riferimento alla prima indagine, specifica che “l’atto fraudolento è l’estrinsecazione attuosa del mezzo fraudolento colto nel suo concretizzarsi, è il mezzo fraudolento assunto nel momento del suo impiego, in vista del raggiungimento del fine. L’atto esecutivo può solo avere forma di atto fraudolento” (pagg. 78-79). Continua: “l’imputato non deve solo volere lo scopo, deve volere anche il mezzo fraudolento, poiché il mezzo fraudolento è inerente al fine della sua azione, e il mezzo fraudolento deve non solo essere intenzionalmente destinato, ma anche oggettivamente avviato a produrre l’evento di pericolo” (pag. 79).
Quindi, ad essere fraudolento non deve essere soltanto lo scopo, nel caso in esame il presunto tentativo di influenzare (paradossalmente, come visto in vari punti della sentenza, non necessariamente a vantaggio della propria squadra) l’arbitraggio di una gara, ma anche il mezzo per raggiungere tale scopo, nel caso in specifico: le varie conversazioni telefoniche in chiaro e quelle presunte nel pasticciato circuito delle sim straniere.
E allora, ad avviso del giudice, “un mezzo può essere qualificato fraudolento quando realizza una finzione atta a produrre un inganno determinato da una falsa apparenza materiale o da una suggestione logica o sentimentale. Deve trattarsi di parole o azioni volte a far credere il falso a pro di chi inganna, a soddisfazione dell’interesse gretto di questi” (pag. 79). Traducendo il tutto in un linguaggio comprensibile, il tribunale considera potenzialmente idonee a creare un pericolo per il bene protetto non solo azioni esplicite concrete, per esempio una richiesta del tipo “fateci vincere”, ma anche apparenze e millanterie.
Con riferimento alla seconda indagine il collegio osserva che “anche del fine deve essere accertata la rispondenza alla descrizione fattane dal legislatore, ovviamente con l’uso di tutti i mezzi messi a disposizione del giudice dall’istruttoria dibattimentale.
Vanno valutati non solo gli atti, ma anche il fine che li ha animati, che deve essere quello descritto dalla norma incriminatrice” (pagg. 79-80). Il tribunale poi precisa che “il momento esecutivo connotato dall’atto fraudolento non costituisce di per sé indice diagnostico del fine, ma deve essere accompagnato dalla valutazione, e relativa esigenza probatoria, della volontà diretta allo specifico fine” (pag. 80). In sostanza, “il mezzo fraudolento deve essere convogliato nel conseguimento del fine” (pag. 80). Per valutare il fine, questo collegio deve quindi operare un'indagine “di natura psicologica” (pag. 80), con il ricorso “a tutte le prove a disposizione” (pag. 80) e tenendo conto nella ricostruzione del fatto di “tutte le circostanze e le modalità nelle quali l’azione si è esplicata” (pag. 80). Contano, quindi, “le circostanze di tempo e di luogo, e la personalità psicologica dell’imputato” (pag. 81).
Come si può notare con sempre maggior evidenza, il giudizio sul reato di pericolo si basa su elementi non chiari ed oggettivi, bensì aleatori e soggettivi come l’interpretazione delle intenzioni, attraverso, per fare un esempio, il giudizio sulle millanterie ascoltate in conversazioni private, goliardiche o semplicemente di cortesia oppure di circostanza, in situazioni di alterazione o meno dello stato d'animo per fatti concernenti la partita o magari in alcun modo ricollegabile a tale evento. Psicologia insomma, da contestualizzare attraverso le fredde trascrizioni del perito e le spiegazioni degli attori del processo. Il tribunale alla fine costruisce in pratica un profilo psicologico dell’imputato e presume se abbia avuto o meno certe intenzioni.
Tale presunzione, siamo al terzo momento di indagine, infatti “non è assoluta, e non sono indifferenti al giudizio le eventuali particolari condizioni positive o negative in presenza delle quali l’imputato agisce, che siano tali da sottrarre l’effetto al dominio dell’autore dell’atto. In particolare non può essere esclusa a priori la rilevanza di particolari situazioni delle persone che sono attivamente e passivamente protagoniste della vicenda criminosa, e parimenti non può essere esclusa a priori la valenza delle incidenze ambientali” (pag. 81). Per valutare, quindi, l’attitudine del mezzo fraudolento a provare l’intenzione dell’agente “deve pur sempre essere considerato il contesto dell’episodio criminoso” (pag. 81).
Con queste premesse, ad esempio nell’imputazione al capo Q il giudice si deve convincere che, tenuto in conto il profilo psicologico degli imputati ed il contesto della telefonata ed ovviamente il contenuto della stessa, nella famosa 'grigliata' fatta all’una di notte con l’allora designatore arbitrale, Paolo Bergamo, l’ex-direttore generale della Juventus avesse non semplicemente voluto fare un gioco 'all’indovina la griglia', bensì abbia proprio voluto influenzare la composizione della stessa, nella convinzione che così facendo ne avrebbe tratto un vantaggio personale o in favore della Juventus. Comportandosi in quel modo avrebbe dunque messo in pericolo “il leale e corretto” svolgimento della competizione, potendosi configurare, se non fosse avvenuta quella conversazione, che a dirigere la partita sarebbe potuto potenzialmente essere chiamato un altro arbitro, con “il suo bagaglio di cognizioni” (pag. 123), il quale direttore di gara avrebbe teoricamente potuto anche portarla ad un altro risultato; come già detto, non necessariamente peggiore o migliore rispetto a quello poi effettivamente risultò, ma semplicemente diverso.
Quindi per il giudice è concepibile il reato di frode sportiva per il semplice fatto che a dirigere una gara ci sia un arbitro in perfetta “buona fede” (pag. 123) della Can A e B, internazionale e di esperienza, piuttosto che un altro con le stesse caratteristiche, nonostante l’arbitro sorteggiato sia poi entrato in campo senza alcun condizionamento in favore degli interessi personali di un imputato, dunque altro fischietto in perfetta “buona fede”. Per condannarlo basterebbe così la convinzione che l’accusato abbia in qualche modo provato ad influenzare tale scelta per avere un proprio tornaconto personale. Come dire, esprimere ad un designatore arbitrale di volere Collina sarebbe un potenziale reato e non un naturale desiderio di avere il miglior arbitro italiano dell’epoca. E sarebbe addirittura un reato il semplice evidenziare ai designatori arbitrali chi sono, a proprio giudizio, i migliori arbitri della Serie A e B senza nemmeno chiedere esplicitamente di avere questo o quell’arbitro per la propria gara.
Nel precedente articolo avevamo spiegato da un punto di vista della sostanza le ragioni, le quali, a nostro avviso, avevano permesso ai giudici di abbassare l’asticella dell’intransigenza ad un livello tale da farci rientrare una condanna per Luciano Moggi. Da un punto di vista strettamente tecnico-formale viene in aiuto anche il fatto che la quarta indagine venga completamente e scientemente ignorata in questo giudizio. Infatti, con l’aggiunta di questo momento di analisi, l’illecito penale sarebbe dato, “oltre che dal momento formale della trasgressione della norma, dall’elemento sostanziale della lesione del bene” (pag. 81). E per chiarire ancora meglio, “l’antigiuridicità dell’atto deve essere data naturalmente dall’adeguatezza di esso a produrre un danno o un pericolo al bene protetto dall’ordinamento giuridico, nel caso di specie un pericolo” (pagg. 81-82). E così, “l’idoneità dell’azione, (..), dovrebbe costituire il risultato finale del giudizio, e le prove dovrebbero portare l’interprete a concludere che la specifica azione, secondo la logica normale dei probabili, aveva una potenziale causalità, un’attitudine causale a produrre l’evento” (pag. 82).
Non soltanto, quindi, un giudizio su un eventuale atto fraudolento finalizzato, ma anche un giudizio sulle conseguenze. Difatti, “non basterebbe, per produrre l’evento pericoloso, volere lo scopo e i mezzi fraudolenti relativi ad esso, e sarebbe necessario altresì determinare se l’azione, nel modo e nelle circostanze in cui si svolse, era adeguata, conformemente alle norme dell’esperienza, a produrre l’evento, nella specie pericoloso, che si voleva conseguire” (pag. 82). Quindi logicamente ci deve essere un pericolo concreto. Se i sorteggi fossero stati realmente truccati, ecco che saremmo eventualmente potuti essere in presenza di un pericolo concreto, poiché si aziona un meccanismo per ottenere a piacimento un arbitro con tutte le conseguenze in termini di condizionamenti. Ma poiché sappiamo benissimo che i sorteggi non erano stati alterati, cosa confermata dalla sentenza stessa a pag. 90, eliminando questo momento d'indagine i giudici sono potuti salire di un gradino nella scala dell’astrazione e hanno potuto teorizzare che, ad esempio, una innocente chiacchierata su una griglia possa in astratto configurare la possibilità di un pericolo nella selezione finale dell’arbitro e che quindi sostanzialmente devia il corso della storia di una partita, un po’ come i famosi 'sliding doors'. E così nella sentenza la formazione delle griglie, "atto proprio dei designatori" (pag. 96), diventa "il momento fondamentale di impostazione dell’arbitraggio delle partite, idoneo a incrementare le possibilità che per una determinata partita fosse scelto in concreto un arbitro gradito a un competitore e sgradito all’altro" (pag. 96).
Vista soprattutto l’inconsistenza di tutte le presunte prove portate a carico degli imputati per giustificare questa sentenza di condanna, siamo tuttavia amaramente pressoché certi che, anche in presenza di una qualche analisi della quarta indagine, i margini per giudicare colpevoli gli imputati sarebbero stati comunque ancora ampi. D’altronde, come sappiamo, la genericità e la soggettività del reato in oggetto è tale che in pratica con un po’ di olio di gomito qualsiasi comportamento equivoco possa essere interpretato come fattispecie criminosa.
Infatti, il collegio si affretta subito ad aggiungere che “va sottolineato che comunque anche questo giudizio di adeguatezza dell’azione dovrebbe essere condotto alla stregua dell’esperienza” (pag. 82), rendendo dunque anche questo criterio altamente aleatorio, facendo così rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Infatti, “Il giudizio di adeguatezza non è un giudizio sull’atto dell’uomo, ma un giudizio sulle conseguenze che si possono riportare all’atto, prodotto dall’uomo, pur se la determinazione del fine serve certo a illuminare l’adeguatezza dell’azione, poiché lo scopo nel delitto a consumazione anticipata è l’elemento primario, poiché nel delitto a consumazione anticipata non viene perseguita l’aggressione in atto del bene, ma quella in potenza, e il fine è qualcosa di diverso dal dolo, costituisce il momento soggettivo dell’antigiuridicità” (pag. 83).
Chiudiamo così questa seconda parte di approfondimento generale della sentenza e vi rinviamo alla terza puntata che sarà anche quella conclusiva di questo “Speciale Calciopoli” dedicato alle condanne subite da Luciano Moggi in questo primo grado. Nell’ultima puntata esporremo una serie di argomentazioni logiche portate dalle difesa a discolpa dei propri assistiti durante il dibattimento e nella discussione, ma che in definitiva poco hanno potuto per evitare la sentenza di colpevolezza.
Puntate precedenti:
SPECIALE CALCIOPOLI: A5, Il "salvataggio" della Fiorentina
SPECIALE CALCIOPOLI: Z, La Roma-Juventus dei "traditori"
SPECIALE CALCIOPOLI: O, La partita di Abeijon
SPECIALE CALCIOPOLI: M, Vuoi mettere Kakà
SPECIALE CALCIOPOLI: B, Il pugno di Jankulovski
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SPECIALE CALCIOPOLI: G+I /1, la "dottrina Meani"
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SPECIALE CALCIOPOLI: A /3: un'associazione fondata su spavalderia e sarcasmo
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SPECIALE CALCIOPOLI: la logica del tribunale riguardo alle frodi sportive /1, “tutti colpevoli”