Riportiamo la lettera di Andrea Agnelli pubblicata dal Corriere della Sera il giorno successivo alla vittoria del trentunesimo scudetto: un'analisi spietata della crisi del calcio italiano, ed un'esortazione a recuperare il prestigio perduto.
Il modello vincente
Il giorno della vittoria ha sempre un gusto particolare. Si ripensa all'impegno profuso, alle scelte quotidiane che hanno portato al risultato finale, alla situazione iniziale cui si è riusciti a porre rimedio.
Vincere uno scudetto è questione complessa. Vincerne due di seguito ancor più. Un'alchimia? Forse. Un fortunato-colpo di prestigio? No.
Certamente la sorte ha un ruolo nel calcio come nella vita, ma spesso la fortuna passa dove la programmazione, il lavoro e l'organizzazione hanno già attecchito. Nel calcio moderno si devono tenere in considerazione molteplici fattori per raggiungere l'obiettivo: la competenza tecnica, i tifosi, la capacità di attrarre le aziende sponsor, il forte ruolo dei media, le risorse finanziarie e gli investimenti (non gli sperperi capricciosi) e, infine ma in cima a tutto, la programmazione. Da tre anni questi elementi sono la nostra road-map. Da molto tempo il calcio italiano fatica a seguire un percorso analogo.
Tutti (me incluso) ci siamo lungamente affannati ad attribuire colpe e responsabilità. Nel frattempo il nostro sistema ha perso terreno in tutte i ranking continentali, che nel mondo del calcio rappresentano implacabilmente il livello di competitività e di redditività. I nostri stadi registrano un numero di spettatori inferiori e in calo rispetto a quello degli altri Paesi, mentre da dieci anni si discute un disegno di legge riguardante gli impianti sportivi. I brand del calcio italiano, conosciuti in tutto il mondo, vengono quotidianamente contraffatti senza che ci sia un'adeguata tutela dei marchi. Il nostro sistema di giustizia sportiva vive continue contraddizioni sulle quali non mi dilungo per amor di Patria, ma che sono sotto gli occhi di tutti. Il quadro normativo riguardante lo sport professionistico risale al 1981 e richiede una revisione complessiva. I nostri giovani atleti, dopo il campionato Primavera, vivono stagioni di continue peregrinazioni poiché l'Italia è l'unico Paese dove non esistono ancora le seconde squadre.
Il nostro calcio è stato fino all'inizio di questo secolo il faro a livello continentale: grandi campioni, grandi folle, grandi partite, grandi successi. Oggi è difficile trovare un match di serie A trasmesso live all'estero: anche sotto questo profilo inglesi, spagnoli e tedeschi ci hanno sopravanzato e distaccato. La mia generazione è cresciuta con «il campionato più bello del mondo» e vorrei che altrettanto succedesse ai miei figli.
Dopo due scudetti consecutivi sarebbe facile guardare lo stadio, di nostra proprietà, pieno, e godere dell'attimo. E giusto invece sottolineare che lo sport in Italia rappresenta 1'1,6% del Pil, che il calcio professionistico (A, B e Lega Pro) impiega circa 10 mila addetti e contribuisce alle casse del fisco italiano con un miliardo di euro. Insomma è un comparto industriale a tutti gli effetti. E un patrimonio italiano. Un patrimonio che l'immobilismo sta mettendo a repentaglio.
Si tratta di rispondere ad una semplice domanda: vogliamo che la nostra serie A competa con Bundesliga, Liga e Premier League o preferiamo che il suo ridimensionamento prosegua?
Molti dicono che il calcio sia lo specchio del Paese. E un'affermazione che contesto: il calcio è sempre stato meglio e infatti la gente, a modo suo, non ha mai smesso di amarlo.
La nostra road-map un modello da seguire
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- By Redazione