Sono ben cinque i san Giacinto venerati dalla Chiesa. A questi se ne è aggiunto un altro, san Giacinto Facchetti, elevato all'onore degli altari di quel calcio italiano in cui 'La Gazzetta dello Sport' fa le veci, in qualche modo, del Vaticano, distribuendo scomuniche e canonizzazioni sportive. La santificazione calcistica è avvenuta in tempi rapidissimi, immediatamente dopo la morte dell'ex grande calciatore nerazzurro, a differenza di quanto accade in ambito religioso dove, per iniziare l' "inchiesta" sulle virtù del defunto, devono trascorrere almeno cinque anni dalla sua scomparsa. Ma se Benedetto XVI ha fatto un'eccezione per il suo predecessore Giovanni Paolo II, non c'era motivo di indugiare, avranno pensato nelle redazioni sportive, nel caso di Facchetti, uno dei principali martiri di quella mostruosa empietà chiamata Moggiopoli.
Insomma, si è fatto come ai tempi antichi della Chiesa, quando bastava la "vox populi" di santità, sostituita in questo caso dal "sentimento popolare", per procedere alla canonizzazione. Oggi, invece, il Papa esige un'indagine molto accurata su vita e le opere del futuro santo, pretendendo, oltre che la prova di almeno un miracolo, anche la chiara e inequivocabile constatazione delle sue "virtù eroiche". Quanto al miracolo, forse, per il santo calcistico, ci si potrebbe accontentare di avere fatto vincere "post mortem" qualcosa all'Internazionale, grazie anche alle conseguenze di alcune sue azioni. In merito alle virtù eroiche occorre invece ripristinare la figura, oggi scomparsa, del Pubblico Ministero, popolarmente conosciuto come avvocato del diavolo, che si opponeva al Relatore nel processo canonico.
Per fregiarsi di virtù eroiche, in senso laico, occorre molto di più di un comportamento mediamente corretto nel corso della vita; bisogna abbondantemente superare la consueta misura umana, distinguendosi per il sacrificio costante della propria persona e, soprattutto, per l'instancabile perseguimento del Bene, a prescindere e anche contro ogni proprio tornaconto. Dal momento che "ai valori di Facchetti" persino l'ex presidente di quella Juventus da sempre acerrima rivale della squadra del campione di Treviglio proclamò che ogni sportivo si dovesse ispirare, occorre accertare se tali valori siano stati tanto superiori a quelli dei suoi colleghi.
Intendiamoci: fa bene il figlio Gianfelice a difendere, dal punto di vista del suo ricordo privato, la memoria del padre (tranne quando dà di "barboni" a chi non la pensa come lui). Non abbiamo alcun motivo di dubitare che Facchetti sia stato un padre amorevole, un marito fedele, un amico sincero, insomma una brava persona come, immaginiamo, molti altri del suo stesso ambiente. Ma non è questo il punto, poiché chi non crede, come l'avvocato del diavolo qui presente, alla santità di Facchetti lo fa sulle basi del suo ruolo pubblico, quello di alto dirigente della società calcistica Internazionale. I lettori abituali di questa testata sanno bene quali siano i comportamenti "non virtuosi " di cui è stato accusato, che vennero definiti dal Procuratore della Figc Palazzi come "illeciti sportivi". Al di fuori dell'ambito calcistico, e ben più gravi, ci sono le dichiarazioni di Tavaroli, rese in un'aula giudiziaria, che indicavano in Facchetti, oltre che in Moratti, le persone che gli avevano commissionato alcune delle sue illegali azioni di spionaggio. Si tratta di un reato che, se provato, non può essere facilmente derubricato a stupidaggine da poco.
Si dirà, però, che quelle presunte colpe dell'ex dirigente nerazzurro vennero commesse nel fuoco della lotta "per la vita e per la morte" contro quell'idra tentacolare rappresentata da Moggi e dai suoi accoliti. Anche i santi sono uomini, talvolta hanno pure impugnato la spada per combattere i malvagi e persino la Chiesa riconosce il diritto alla difesa... La canzone la conosciamo bene, perché è intonata di continuo da tutti gli agiografi di Facchetti. Proviamo allora a vedere se, al di fuori degli eventi eccezionali nei quali ogni essere umano può "trasformarsi", le virtù eroiche, ma anche quelle più terra a terra, alla portata di tutti, abbiano sempre contraddistinto l'agire del Nostro.
Facchetti ha accompagnato, da dirigente, la lunga parabola dell'Internazionale targata Massimo Moratti e non risulta che mai si sia opposto con successo a una delle tante "mattane" del suo datore di lavoro, che lo hanno portato a sperperare una quantità di denaro con cui si sarebbe sistemato il bilancio di diversi Paesi africani. Come un po' tutti oggi riconoscono, compresi quelli che all' 'Internazionale" non sono certo pregiudizialmente sfavorevoli. Vogliamo pensare che fra le virtù dell'ex terzino della Nazionale mancasse del tutto il discernimento oppure che abbia prevalso il quieto vivere? Ma il "quietismo", ché questa è l'ipotesi cui crediamo, è l'opposto della santità e, a dirla tutta, anche della fermezza di carattere. Pensiamo, per esempio, all'esonero, nel 2004, di Zaccheroni, al quale Facchetti, che allora era addirittura presidente, aveva garantito il mantenimento della panchina finché lui fosse rimasto in carica. Moratti, improvvisamente, decise di licenziarlo e, per salvare la faccia al presidente, si mise in piedi la sceneggiata delle dimissioni dell'allenatore, accompagnate, peraltro, da una robusta buonuscita.
Salvare la faccia e il ricco stipendio: questa è stata anche, insieme a tutte le virtù di cui parlano i suoi agiografi, la stella polare del Facchetti dirigente calcistico. "Umano troppo umano" e, quindi, per nulla scandaloso: così fan tutti, o quasi. Un po' poco però per additarlo, a ogni piè sospinto, come il massimo esempio di rigore morale per i "giovani che si avvicinano allo sport". Intollerabile, soprattutto, è che quando si prova a ridiscutere Calciopoli, evidenziandone le incongruenze, non si possa mai citare il nome di Facchetti, se non si vuole passare per canaglie disposte a sputare, per loschi fini, sulla tomba di un eroe.
Il "caso Facchetti" non è certo isolato poiché, in Italia, ci sono alcuni ambienti, protetti da poteri trasversali, sui quali non è lecito esercitare oltre un certo limite la critica. Per quanto riguarda l'Internazionale bisogna fermarsi alla dimensione sportiva, chiudendo gli occhi su altre magagne, per evitare guai, soprattutto se si fa il giornalista. Ne è prova, in piccolo, anche la figura di un altro dirigente storico dei nerazzurri, il "simpatico" Peppino Prisco. Fra i suoi "bons mots" tanto apprezzati, si cita spesso quello della stretta di mano, dopo la quale, nel caso che il contatto fosse stato con un milanista, se la sarebbe lavata, nel caso di uno juventino, invece, avrebbe subito controllato di avere ancora tutte le dita. Chissà che ridere i piccoli azionisti messi sul lastrico dal crack del Banco Ambrosiano (circa un miliardo e mezzo di euri ai valori odierni) a pensare che chi faceva ironia sull'onestà altrui era stato condannato proprio per la bancarotta dell'istituto controllato da Roberto Calvi...
Noi che difendiamo la Juventus pre-Farsopoli sappiamo bene che, nel calcio, di martiri e vergini, compresi i nostri dirigenti, non ce ne sono mai stati. Alla massa dei creduloni che si abbeverano alla Gazzetta e ad altre simili fonti di "informazione" lasciamo volentieri la parte dei rozzi contadini di Certaldo i quali, in una novella del Decameron, credono ciecamente che frate Cipolla gli mostrerà la meravigliosa reliquia costituita da alcune piume delle ali dell'arcangelo Gabriele. Non potevano immaginare, quei villici non tanto diversi da certi zotici odierni, che si trattava delle penne di un pappagallo.
Santo subito!
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- By Roberto Fiandre