La probabile penalità cui sembrerebbero andare incontro il Napoli, il suo capitano (il Cannavaro meno buono, per intenderci) e il giocatore-feticcio simbolo della rinascita del Ciuccio (Gianluca Grava) hanno riconfermato una volta di più quanto la cultura di questo calcio (direi dell'intera "Itaglia") spinga i protagonisti a giudicare le cose in base al proprio tornaconto.
Poche settimane fa le pagine dei giornali erano piene di illustri (???) "orientatori di pensiero" (i gazzettari, ma non solo) che dispensavano pillole di etica e morale sull'intoccabilità (addirittura venne rispolverato il termine "sacralità") della giustizia sportiva, in questo ben spalleggiati dai massimi rappresentanti di Coni e FIGC.
E' bastato che il sonnecchiante Palazzi mettesse finalmente mano al filone Napoli per ribaltare completamente le opinioni dei suddetti giornalisti, oggi pressoché concordi nel definire la giustizia sportiva ingiusta e obsoleta, da riformare a cominciare da quello che per il presidente federale era fino a poche settimane fa "uno dei capisaldi della giustizia sportiva italiana, adottato anche da FIFA e UEFA": la responsabilità oggettiva.
In questi giorni lo stesso presidente federale, fresco di ricandidatura, una volta di più si è dimostrato campione mondiale di "in-competenza" e incoerenza, visto che alla luce dei nuovi fatti si è lasciato andare ad una confessione.
Eccola: “Occorre una riflessione sulla responsabilità oggettiva, perché naturalmente la realtà delle scommesse ha portato nuove fattispecie prima inesistenti che richiedono una riflessione, lavorando molto sulle esimenti per le società in modo tale che ci sia anche la possibilità per la società di giocarsi una partita in relazione alle responsabilità effettive. La responsabilità oggettiva - ha aggiunto l'Abete buonista - è un caposaldo della normativa Fifa e Uefa, quindi non è una peculiarità della Figc, però deve tenere conto di uno scenario che si è molto modificato in relazione anche alle problematiche delle scommesse sportive”.
Un bel dietrofront, seppur farcito dalle consuete acrobazie lessicali, non vi pare?
Ma il signor Abete ci ha abituati a questo tipo di atteggiamenti, a questo tipo di dichiarazioni contraddittorie - e quasi sempre incomprensibili - attraverso le quali rinnega concetti ribaditi con forza in altre (rarissime, per la verità) uscite accompagnate da un minimo di lucidità e fermezza, come quella risalente all'8 ottobre e destinata al presidente Agnelli, che all'Assemblea Azionisti della Juventus aveva chiesto interventi correttivi riguardo al codice di giustizia sportiva.
Questa fu, allora, la risposta di un Abete intransigente: "Di presidenti che fanno della protesta il loro modus operandi non ne abbiamo bisogno non abbiamo bisogno di chi alimenta tensioni e faziosità, di chi vorrebbe una giustizia a proprio uso e consumo, di chi parla nella logica di non conoscere il sistema delle regole correndo così il rischio di dire cose che non stanno né in cielo né in terra. Il calcio non è proprietà privata. La sofferenza per certe decisioni può essere comprensibile ma poi le sentenze vanno rispettate così come gli organi di giustizia sportiva che sono chiamati a un compito improbo che è di dare dei giudizi e hanno doti professionali idonee per farlo. Oltretutto non c'è accanimento verso nessun tesserato nè motivo perchè ci sia. Un giudice può giudicare bene o male ma non si può demonizzarlo, va sempre salvaguardato il rispetto del ruoli e riconosciuta la funzione della giustizia che non è appiattita su interessi personali".
Una chiusura a parole apparentemente inderogabile, un no secco a qualsiasi ipotesi di cambiamento, che alla luce dei fatti di questi giorni sembra l'ennesima beffa che questo signore - e lo ribadisco, ricandidatosi alla poltrona più importante del nostro calcio - ci riserva.
Parliamo dello stesso dirigente che ha confermato l'organico di quella Procura Federale che, dopo gli orrori perpetrati senza soluzione di continuità negli ultimi anni, nelle ultime settimane si è distinta anche per il doppiopesismo applicato a due presidenti particolarmente critici nei confronti del settore arbitrale: il deferito Pozzo e il “graziato” Moratti, per il quale vige una specie di immunità eterna.
E, a conferma di quanto le parole di Abete siano credibili quanto lo è una moneta da tre euro, ricordiamo quanto da lui stesso dichiarato il 22 ottobre e cioè che “il nostro ordinamento sportivo si basa su principi di equità, correttezza e trasparenza" e ancora: "Il problema sta nel saper svolgere il proprio ruolo ed essere equi nel giudizio al di là delle simpatie e antipatie che si possono avere".
Conoscendo il personaggio e chi lo circonda, combriccola giornalistica compresa, non c'è da meravigliarsi ma, in un momento in cui la classe dirigente del Paese viene messa pesantemente in discussione, male non sarebbe se fosse il calcio a dare un primo esempio.
Mandando a casa soggetti come Abete.
Abete e la giustizia sportiva: "sacralità" ad intermittenza
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- By Claudio Amigoni