Recentemente il caso Brunelli e la vicenda delle plusvalenze fittizie tra Inter e Milan hanno fatto tornare di moda le discussioni sullo sfascio finanziario del calcio italiano. Un argomento che ha sempre solleticato il moralismo dei censori dalla penna facile, perennemente in attesa di puntare il dito su quel mondo marcio (ma pulito, dalla dipartita di Moggi in poi) che li ingrassa e li mantiene a forza di scandali. Eppure una plusvalenza non è che la punta dell'’iceberg, uno svolazzo di panna in cima alla torta nuziale. Dietro c’è un cosmo sommerso di nefandezze, un calderone di intrugli che ha iniziato a riempirsi molto tempo fa.
Già, perché se si vuol capire il presente bisogna guardare al passato: in questo caso almeno fino al 1986, anno in cui Silvio Berlusconi acquista il Milan dall’ormai squattrinato Giussy Farina.
La discesa in campo del Cavaliere segna la fine di quel calcio romantico fatto di presidenti macchiette e di caffè Borghetti, in favore di una concezione manageriale dell’evento sportivo. La partita non è più uno spettacolo per tifosi ma una spugna da strizzare a fondo, soprattutto in televisione: le telecamere invadono il terreno di gioco, i telecronisti si moltiplicano e il pallone prende a rotolare sul piccolo schermo praticamente tutti i giorni della settimana. Il tifoso, da cliente delle società (pagava un biglietto o un abbonamento per vedere lo spettacolo della sua squadra preferita) diventa cliente della televisione la quale lo rimbecillisce a colpi di sciabolate e di replay come non li avevano mai visti. Ma a vendere il tifoso alla tv sono le società stesse, coperte d’oro nel gioco dell’acquisizione dei diritti (aumentati di 25 volte dall’avvento di Sua Emittenza a oggi).
Questa nuova fonte di ricavi immette denaro fresco nelle casse dei club che, con l’introduzione della Legge Bosman (15 dicembre 1995), hanno solo l’imbarazzo della scelta. Il mercato si fa altamente competitivo e i giocatori, sorvegliati dai procuratori, acquisiscono un enorme potere contrattuale: gli ingaggi salgono alle stelle e nella corsa all’accaparramento i presidenti sono disposti a follie impensabili fino a qualche anno prima. Intanto la tv martella e il rampantismo berlusconiano è lì a ricordare che se non vinci almeno uno scudetto ogni sei mesi non sei nessuno. Vae victis! Chi ha i soldi li spende, chi non li ha li spende lo stesso. Guai a rimanere indietro, guai a lasciarsi scappare un Mendieta, un Vampeta o i kit preconfezionati Jonk-Bergkamp, Rambert-Zanetti. Si deve vincere, e subito.
Ma il colpo di grazia è dietro l’'angolo: il 16 settembre 1996 le società di calcio diventano a tutti gli effetti entità a fine di lucro. Improvvisamente ci si sente in dovere di fare come nell’azienda del babbo: il Milan si comporta da Mediaset, l’Inter da Telecom, la Lazio da Cirio e la Roma da Capitalia. Talis pater, talis filius: voragini di bilancio, trucchetti per campare, debiti spalmati, leggi ad hoc e tanta simpatia.
E pazienza se con la dignità qualcuno è riuscito a vendersi anche il marchio.