AbeteCi "hanno abboffato le palle", per dirla à la Casoria, da mesi, con la storiella dell'Etica, etica di qua, etica di là, l'etica che non va in prescrizione.
E adesso siamo a questo punto.

Aggiungiamo: da mesi, da quando è affiorato lo scandalo delle scommesse, la parola d'ordine, perfettamente etica, è stata: 'Fuori dal calcio le mele marce!'. Tutti d'accordo: Figc, Uefa, ministri della Repubblica.
Poi ora si scopre che quasi la mela marcia è Antonio Conte, che non ha scommesso (né fatto scommettere) un euro. Ohibò.
Così va in questa Italia: etica sì, etica no, l'Italia dei cachi. Perché solo così si può definire, con tutto il rispetto per i cachi, un paese dove è assolutamente ammissibile considerare colpevole, e di conseguenza condannare, previa congrua preliminare crocifissione mediatica, un individuo senza che vi sia uno straccio di riscontro alle accuse di una delle vere mele marce, uno di coloro che hanno attivamente partecipato a combinare partite e con ciò a falsare gli esiti di una competizione il cui solo giudice avrebbe dovuto essere il campo.

Si fanno veri e propri salti mortali (per l'etica): il 'pentito' (ben virgolettato) per il procuratore federale è credibile a prescindere, al di sopra di ogni sospetto; una gola profonda (quanto profonda forse non lo sapremo mai) che ha raccontato, lautamente gratificato a livello sanzionatorio, qualche verità (non sarà dunque una mela marcia fuori dal calcio; dopo una pausa di riflessione, in qualche veste vi potrà ritornare): e vien da pensare che lui e la schiera dantesca dei purganti chissà quante potrebbero averne taciute; scommessopoli, data la vastità e il radicamento cui era giunta prima che la Procura di Cremona si accorgesse che c'era del marcio, si sta rivelando un pozzo senza fondo, dove aveva abbondantemente le mani in pasta la criminalità organizzata multietnica.

Ma a pagare il conto, misteriosamente, rischia di essere Conte; e lo stesso discorso si può applicare pari pari a Bonucci, sostituendo Carobbio con Andrea Masiello. Chi, da colpevole confesso, punta il dito verso obiettivi ben scelti, of course, paga gli spiccioli, una mancia diremmo, e lascia il conto in mano a chi non può difendersi; perché il pentito no, sul pentito non si può, non può essere interrogato né chiamato a confronto, né invitato a fornire riscontri alle sue accuse; pur se smentito da uno stuolo di testimoni rimane la bocca della verità. Da mela marcia ad arma letale.
Che poi, nel caso di Conte, escluso qualsiasi passaggio di denaro, non si capisce quale follia potrebbe aver indotto il tecnico, già di suo con la fregola della vittoria sempre e comunque, a patrocinare e avallare combines a perdere o a pareggiare, contro ogni interesse suo e di squadra.

Certo, la Figc si affretta a spiegare che l'invettiva di Agnelli (persin garbata rispetto alle velenose parole di Moratti quando Palazzi disseppellì le malefatte interiste, pur coprendole col velo della prescrizione) è inaccettabile, perché qua siamo nel regno della giustizia sportiva.
Alt! Non si infami più così la parola giustizia. Abete parli di regole, di quelle , per esempio, che fra un paio d'anni ci restituiranno un Carobbio tirato a lucido e pronto a ripartire alla conquista di un suo posto nel mondo del pallone, parli di quel che vuole, ma lasci perdere giustizia ed etica, due concetti che hanno fatto e governato, ad onta di tanti tirannelli di passaggio, la storia dell'umanità.
Giustizia è tutela del diritto di chi si comporta rettamente a non essere ostacolato nel suo cammino; è presidio della società nei confronti di chi ne turba l'ordinato procedere; la giustizia, dice Cicerone, è uno stato dell'animo, che attribuisce a ciascuno la sua dignità: la dignità di una taroccatore confesso da una parte, quella di una persona retta e leale (a detta di tutti, tranne che del 'combinatore') dall'altra. La Giustizia tutela Conte e la società (circoli della caccia inclusi) dalle malefatte dei taroccatori (Carobbio, Andrea Masiello, Zingari, e chi più ne ha più ne metta); e non viceversa.

Ma finché l'ordinamento sportivo procede così come ora, à la Palazzi, à la Abete, si lascino stare l'Etica e la Giustizia. Sono altro. Pur se, beninteso, non ci sarà da stupirsi se prima o poi la giustizia ordinaria sarà invitata a ficcare il naso nel circolo della caccia, a tutela dei diritti di soggetti anche esterni al circolo stesso, lesi nei loro diritti dalle 'regole', spesso strampalate, di un mondo che si sente al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato; che, ad esempio, garantiscono all'incolpato la più ampia facoltà di difesa e alla presunzione di colpevolezza oppongono la presunzione di innocenza, fino a che la colpa non viene dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Basta pensare ai casi di Conte, Bonucci e Pepe, allo svolgersi dei 'processi sportivi' di Scommessopoli (come fu di Calciopoli) per rendersi conto quanto ne siamo distanti.

Conte Bonucci e Pepe, tre carriere a rischio distruzione, eppure tre posizioni vagliate e accantonate dalla giustizia ordinaria.
Conte, Bonucci e Pepe, tre carriere messe a rischio distruzione dalle parole di individui che la giustizia ordinaria, tanto per intenderci, sta perseguendo per il reato di frode sportiva, in combutta con la criminalità organizzata internazionale; individui che solo per Palazzi e la sua armata hanno nel cuore e sulla bocca solo la verità.

In ogni caso, sul piano strettamente etico, è avvilente veder mortificare così i princìpi del diritto; veder comporre, con l'uso sapiente delle testimonianze ad orologeria dei pentiti e appiccicando qua è là qualche pezzo di sentenza della Cassazione (c'entri o non centri, tutto fa brodo), un puzzle che ritrae, sportivamente parlando, un paesaggio da tregenda, ben diverso da quello in cui Conte e i suoi ragazzi (a Siena, ma anche ora a Torino) hanno vissuto e vivono il loro modo sano di fare calcio, una vita fatta di lavoro, di fatica, di magliette sudate, sempre protesi verso la vittoria. E quando questa non arriva, il rimedio è solo altro lavoro, altro sudore, altra rabbia agonistica.

Ma questo è un altro mondo, quello dello sport, non della politica sportiva e della sua giustizia, due mondi che Abete si affanna a dire indipendenti; ma così non può essere. Tornano in mente le parole di Abete di qualche mese fa, dopo la prima tranche di processi, quando pareva aver fatto balenare l'intenzione di impugnare le sentenze della Disciplinare, in caso di sentenze troppo morbide ("vogliamo condanne pari alle colpe"); sobbalzarono i paladini del pentitismo, Abete smorzò i toni e subito dopo fece 'pace pubblica' con Palazzi lodandone l'opera e sponsorizzandone la riconferma. Ma o Palazzi non sta obbedendo al consiglio (in questa tranche di scommessopoli colpe e condanne viaggiano su due binari assolutamente divergenti) o quelli di Abete erano pensieri in libertà che nel mirino non mettevano i pentiti; il colpo è partito, rapido e preciso: anche se l'Etica era morta da tempo. R.I.P.

 

twitter  @carmenvanetti1