L’esponente di un’associazione dedita ai sequestri di persona venne beccato dalle forze dell’ordine. In Procura parlò, e tanto, fino a far luce su episodi su cui gli inquirenti mai avevano indagato. “Eravamo in un locale pubblico, c’erano venti o trenta persone. Anche se la maggior parte di essi non sono aderenti all’associazione che avevamo messo in piedi, si dissero tutti d’accordo nel sequestrare la figlia del maggior imprenditore del luogo”.
Che il sequestro fosse realmente avvenuto, sembravano esserci pochi dubbi. Era questo, almeno, ciò che filtrava dalla Procura chiacchierona. Il problema principale, piuttosto, era stabilire la sussistenza delle accuse sul coinvolgimento di quelle venti-trenta persone che, secondo l’accusatore, avrebbero partecipato attivamente all’operazione criminale.
Le sorti di Nicola, uno dei presenti quel giorno in quel locale, palesemente estraneo all’associazione a delinquere, stavano particolarmente a cuore ai giornali del posto. Essendo personaggio molto noto ed avendo i quotidiani esigenze di vendita, era soprattutto il suo coinvolgimento a destare scandalo e ad occupare le prime pagine dei giornali.
Neanche il fatto che la pista della sua complicità fosse andata raffreddandosi indusse i quotidiani a demordere. Avevano infiniti assi nella manica. E così, sfumata l’accusa di partecipazione diretta di Nicola al sequestro, iniziarono tutti a ripetere, a mo' di litania, il medesimo aut-aut: “assoluzione o omessa denuncia”. In effetti, secondo il codice penale italiano, il sequestro di persona, o il tentato sequestro di persona, è uno di quei reati per cui esiste l’obbligo di denuncia da parte del cittadino che in qualche modo ne sia informato.
Come i quotidiani, anche i sostenitori di Nicola non si davano per vinti. Non si capiva, infatti, su quali presupposti potesse basarsi un’omessa denuncia, dato che nessuno aveva accusato Nicola di essere a conoscenza del piano per il sequestro ma di non averne rese edotte le autorità locali.
In effetti, nei verbali dell’unico accusatore, nulla vi era che facesse pensare ad un qualcosa del genere.
L'accusa che il pentito rivolgeva a Nicola era infatti solo di una partecipazione diretta, attiva, all’operazione criminale ("Ma alla fine fummo tutti d'accordo nel sequestrare la figlia del massimo imprenditore del luogo”).
Essere d'accordo nel compiere un reato del genere non significa altro che rendersi partecipi a tutti gli effetti al compimento del delitto. E non si capiva, a ragion veduta, su quali elementi potesse giungersi alla condanna di Nicola per omessa denuncia, dato che nessuno, e tantomeno l’unico accusatore, attribuiva a Nicola un ruolo “passivo” nella vicenda, un ruolo che al massimo avrebbe potuto ricoprire un tizio che nel bar stava giocando a briscola e, per puro caso, aveva ascoltato la combriccola affannarsi nell’organizzazione del colpo.
Ciò che era palese, invece, era la contraddizione in cui cadevano i giornali nell’ipotizzare l’omessa denuncia. Essendo il pentito il solo ed unico accusatore di Nicola, affermare che Nicola potesse essere colpevole di aver saputo ma taciuto avrebbe significato ammettere implicitamente che il pentito, che di tutto aveva parlato tranne che di un ruolo passivo di Nicola nella vicenda, non fosse credibile. Dato che quello che non era credibile era, a conti fatti, l’unico accusatore di Nicola, non si capisce cosa Nicola c’entrasse in tutta la faccenda, da cosa dovesse difendersi e cosa avrebbe dovuto denunciare.
Ai giornali, evidentemente, tutto ciò non interessava. E così continuavano a strillare, a sollevare problemi e ad ipotizzare soluzioni. Arrivavano finanche a buttar lì ipotesi di patteggiamento, senza che vi fosse proprio alcunché da patteggiare. Ciò che interessava loro, probabilmente, era semplicemente parlare della vicenda, se non altro per invertire quel trend negativo di vendite dal quale pareva non riuscissero più a raccapezzarsi.
La credibilità dei pentiti e quella dei media
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- By Antonio Izzo